Provate a immaginare una persona – in questo caso Dan Bejar, anima e voce di un progetto dal nome tetro e annichilente – che a tarda notte, nella fioca luce del proprio tinello di casa, prova a registrare delle parti vocali con l’ausilio del proprio pc, a un volume di voce che non disturbi il resto della famiglia dormiente. Aggiungete a questo che il personaggio/progetto in questione ha una discografia con più di dieci dischi all’attivo e la diapositiva è pronta. Realistica ma altrettanto romantica, perché sovverte la topica dell’ispirazione solo in sala di registrazione, umanizzando il processo di creazione.
Ed è stata proprio questa la genesi del dodicesimo disco del progetto Destroyer, Have We Met, con una prima registrazione di arrangiamenti e tracce vocali da parte di Bejar, su cuiJohn Collins ha lavorato lungamente prima di inviarle a Nick Bragg per le parti di chitarra. Un processo di realizzazione stratificato, dunque, per il disco – come anche affermato da Bejar in più interviste – più intimista dei Destroyer. Non che la vena intimista non sia stata propria dei canadesi, l’onesto lo-fi in salsa folk degli esordi ne è la prova in quanto a questo tipo di attitudine.
Comunque, sta di fatto che il bagaglio sonoro di Bejar e dei suoi Destroyer è passato attraverso due decenni e mezzo arricchendosi di molteplici sfumature che vanno dal sanguigno power pop, passando per gli echi di estroso baroque pop, fino ad arrivare alle rarefazioni mescolate a incursioni soul-jazz di inizio anni Dieci che hanno lasciato il passo, poi, nell’ultimo disco (“Ken”, 2017), a un ricongiungimento con una cifra sonora marcatamente pop con innesti sintetici. Il suono sintetico è anche l’idea alla base di “Have We Met”: un synthpop sincretico che si pone come polo attrattivo di suoni piuttosto che di melodia tout court.
L’iniziale Crimson Tide, tra autocitazionismo ed ermetismo testuale, porta avanti questo concetto con effetti positivi sulla tenuta in termini di groove. Stesso discorso può farsi per It Just Doesn’t Happen, nonostante il riff plasticoso che ne sorregge le trame testuali.Le atmosfere rarefatte di Kinda Dark e di The Television Music Supervisor, che strizzano l’occhio a ceneri di trip hop e ai Radiohead di “A Moon Shaped Pool” (2016),fanno i conti con le paure di Dan Bejar. Tra i non pochi momenti alti del disco non si può non ricomprendere Cue Synthesizer, una sorta di lamento sentimentale costruito su questo fraseggio continuo tra chitarra e synth, funk pop, fulcro concettuale del disco. La conclusione è affidata ai toni caldi e rassicuranti di The Man In Black’s Blues e alle sortite ambient pop di foolssong,con annesse divagazioni rumoristiche finali.
“Have We Met”è un lavoro compatto che amalgama passato e presente senza perdersi in echi di sterile retromania e che dimostra ancora una volta la grande maturità compositiva di Dan Bejar e soci. È un disco che fotografa in maniera vivida l’identità sonora dei Destroyer, oggi, e sicuramente non sfigurerà tra i gradini più alti della loro discografia.
(2020, Dead Oceans)
01 Crimson Tide
02 Kinda Dark
03 It Just Doesn’t Happen
04 The Television Music Supervisor
05 The Raven
06 Cue Synthesizer
07 University Hill
08 Have We Met
09 The Man In Black’s Blues
10 foolssong
IN BREVE: 3,5/5