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Dutch Uncles – Out Of Touch In The Wild

Non è la prima volta in questi anni che ci troviamo a parlare di una band che fa di un pop geometrico, complesso, sensuale, la sua cifra stilistica. E ancora una volta si tratta di UK. Potremmo parlare di una sorta di equilibrismo pop per un gruppetto di artisti che, in forme svariate e personali, hanno declinato ciascuno un’interessante e originale rielaborazione di istanze musicali multiformi: un pop a cui possiamo premettere, senza timore di sbagliare o di fornire un’immagine incoerente, i vari attributi math, prog, post, funk, ecc. Everything Everything, Foals, Wild Beasts e, appunto, i nostri Dutch Uncles, per dirne alcuni, sono balzati agli onori della cronaca, chi prima chi dopo, per aver assemblato una struttura pop che di fatto è nuova. Abbiamo già avuto modo di osservare le evoluzioni di questi gruppi, i percorsi spesso inversi che hanno seguito, sempre all’interno di una matrice comune che comunque preserva la loro individualità.

Circoscrivendo il nostro discorso al 2013, abbiamo assistito alla “normalizzazione” (senza che ciò implichi un fatto negativo) del suono Everything Everything, e alla quadratura del cerchio in quello dei Foals, che con “Holy Fire” hanno trovato il perfetto equilibrio tra le varie spinte propulsive dei due dischi precedenti. I Dutch Uncles di Manchester arrivano al terzo album con una manciata di responsi positivi per il precedente lavoro, “Cadenza”. E’ però sicuramente Out Of Touch In The Wild il disco che fissa e definisce lo stato della band, e anche quello che ha dato e darà loro maggiore visibilità. Ci troviamo sostanzialmente di fronte a un disco studiato millimetro per millimetro, nota per nota, secondo uno schema forse anche troppo rigido, che eredita la precisione metronomica del minimalismo reichiano (di cui permane il tratto più distintivo, ovvero l’impeccabile puntinismo di xilofono e marimba), asservendolo a un pop che eredita la tradizione di XTC e Talk Talk, e in tempi più recenti, di Field Music e Wild Beasts, di cui però i nostri offrono una versione più ballabile.

Disco niente affatto immediato e miracolo di studio, “Out Of Touch In The Wild” vive della coerenza dell’insieme, dell’organicità delle parti che lo compongono, tanto che risulta difficile isolare singoli brani. Ciò però non vuol dire che si tratti di un album monotono. Sono anzi tanti i piccoli grandi piaceri da disvelare durante l’ascolto. Bellio è un delizioso gioiello funkeggiante, ritmicamente irresistibile e perfetto negli inserti sintetici; il singolo Fester è certamente il momento più immediato, e come potrebbe non esserlo, con quel saltellare giocoso di marimba, con il piano ballonzolante che satura tutti gli spazi vuoti? Prendetevi il tempo poi di capire fino in fondo quel clamoroso bridge che parte dal nulla quando il pezzo sembra già bell’e finito, iterando lo stesso semplice passaggio melodico raggiungendo un inaspettato climax.

Godboy segna il momento più emotivo e impegnato di tutto il disco, e nel testo che narra la storia di un amico consumato fino alla morte dalla droga, e nell’arrangiamento, in cui spiccano gli archi veloci e scorrevoli, le chitarre languide e sbilenche. Il disco prosegue tutto su questa linea, scombinando le carte già mostrate in questi brani più rappresentativi, riuscendo a costruire un discorso coerente ma mai troppo simile a se stesso. Threads e Flexxin girano dalle parti dei Phoenix più vitali, mentre la conclusiva e krauteggiante Brio riassume un saggio delle abilità tecniche della band senza scadere nell’artificioso. “Out Of Touch In The Wild” rischia di pagare i suoi barocchismi, in un tempo in cui la musica pop trova i suoi esiti più apprezzati quando si pone in un’elevata cifra emozionale.

Ed è onestamente difficile emozionarsi con un album di questo genere: la voce di Duncan Wallis è troppo pulita e delicata per gli standard attuali, le sue melodie giocano a nascondino ed entrano in testa solo dopo attenti ascolti. Per questo suo non essere immediato, è molto probabile che riceva prime impressioni un po’ fredde. Noi, pur apprezzandolo, ci limitiamo a rilevare che più canzoni sulla frequenza di “Fester” avrebbero giovato, se non altro a definire un’immagine più chiara e solida di un disco che invece così risulta lento a farsi amare e veloce a scappare via una volta che l’hai afferrato.

(2013, Memphis Industries)

01 Pondage
02 Bellio
03 Fester
04 Godboy
05 Threads
06 Flexxin
07 Zug Zwang
08 Phaedra
09 Nometo
10 Brio

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