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Fontaines D.C. – Skinty Fia

Prima di iniziare a parlare di Skinty Fia, terza opera dei Fontaines D.C., è necessario fare un passo indietro e tentare un piccolo parallelismo con il recente vincitore dell’Oscar alla miglior sceneggiatura originale, “Belfast”. Il film semi-autobiografico di Kenneth Branagh mostra, in salsa fin troppo agrodolce in alcuni passaggi, la storia di una famiglia nel bel mezzo dello scoppio dei disordini legati al conflitto nordirlandese alla fine degli anni Sessanta, la conseguente paura di lasciare la propria terra d’origine per migrare verso quella inglese (anche più ricca di opportunità lavorative) e quella di non essere accettati; una nostalgica dedica d’amore, in bianco e nero, all’Irlanda da parte del regista.

Analogamente, se il progetto di Branagh mirava a illustrare la questione irlandese “dall’interno” e i sentimenti provati da parte sua, da bambino dei sixties, l’album dei Nostri può essere interpretato come il “moderno” tentativo di ricongiungimento alle proprie radici da parte di cinque giovani di origine dublinese, uno trapiantato in Francia e quattro in Inghilterra, dove un certo stigma sociale è più vivo che mai (contando che al momento il rischio di guerra civile nell’Irlanda del Nord, oggetto della contesa tra Regno Unito e Irlanda, è di nuovo altissimo), il tutto reso cinematograficamente in salsa lynchiana.

A caratterizzare i brani del quintetto è da sempre la tensione: era palpabile fin dal titolo in “A Hero’s Death” (2020), così come nella poesia burlesca e popolana sottolineata dalle sonorità esplosive di “Dogrel” (2019), qui la si identifica invece nelle storie raccontate in stretta connessione alle origini dei componenti della band, fulcro centrale attorno a cui orbita un sound cucito ad hoc per ogni occasione, campo nel quale vi è stata una buona dose di sperimentazione che comprende, oltre ad ambientazioni cupe e gotiche, derive folk, ed elettroniche à la “The Contino Sessions” dei Death In Vegas, arrivando così ad includere alcuni elementi industrial.

Il crescendo teso di In ár gCroíthe go deo è sospeso tra la vertigine del coro che intona quel “nei nostri cuori per sempre” come fosse un canto liturgico e la linea di basso a cui si aggiungono uno per volta tamburello, giri di batteria e chitarre, ed è qui che la band spara il primo colpo di fucile: tale dedica amorevole avrebbe dovuto essere incisa sulla tomba di una donna irlandese residente a Coventry, ma la Chiesa inglese ha negato (si tratta di un fatto recente) il consenso ai famigliari, poiché ritenuta assimilabile a messaggio politico. Si rincorrono in buona parte dei brani dicotomie e il tema del “rovescio della medaglia”, come tra i guitar riff della riflessiva Big Shot, unico pezzo scritto dal chitarrista Carlos O’Connell, incentrato sul successo del gruppo, e nella dipendenza affettiva di How Cold Love Is.

L’amore è spesso dipinto in maniera tragica, sia tra persone, come quello dei coniugi litigiosi “spiati” nella minimale The Couple Across The Way, caratterizzata dal solo motivo di una fisarmonica, o quello tossico e dannato di Skinty Fia, espresso dall’elettronica scura e paranoica sottesa dal basso ossessivo e gallupiano, sia verso la patria. Amore per l’Irlanda e rabbia verso tutto ciò che non vi funziona fanno di I Love You una traccia apertamente di stampo politico, mentre James Joyce e altri scrittori irlandesi sono la principale fonte d’ispirazione dell’elettrica, pesante e piovosa Bloomsday. L’eterea Jackie Down The Line usa nuovamente una relazione disfunzionale per affrontare il tema dell’egoismo e di un (mal)sano menefreghismo, mentre il lato più dreamy e ottimista dell’album è rappresentato da Roman Holiday: entrambe possono essere annoverate tra le migliori canzoni mai realizzate dal gruppo.

Ritornano i riferimenti letterari con la chiusura riservata ad un altro brano cardine, titolato e musicato dal chitarrista Conor Curley, Nabokov, che nel suo vortice di echi trascina all’estremo i compromessi di una relazione: autore per eccellenza in materia di amori malati, ossessioni e situazioni grottesche, nonché, ma forse qui si tratta di una casualità (possibile?), outsider e vero cittadino del mondo, russo per nascita, studi a Cambridge, e buona parte della vita trascorsa negli USA (che a ben guardare, oggi, come un tempo, non erano esattamente i migliori amici della Russia) e in Svizzera, e per questo le sue opere caratterizzate da una grande ibridazione culturale letteraria.

Tradizionalee fortemente identitario, “Skinty Fia” è ineccepibile dal punto di vista testuale e poetico, tuttavia tale enfatizzazione ha fatto sì che venisse sacrificato ancora un po’ di quel mordente che aveva caratterizzato gli inizi e portato, insieme alle liriche realizzate principalmente da Chatten, in fin dei conti ai Fontaines D.C. tanta fortuna. Nonostante la mancanza di quelle peculiarità possa esser percepita dai più puntigliosi come una pecca, la tensione tanto cara al gruppo è perennemente presente e il loro terzo lavoro rappresenta una tappa coerente con il percorso intrapreso, non meno importante dei precedenti, piuttosto un’ulteriore sfaccettatura, tra le tante sicuramente una delle più audaci e rischiose, che la giovane band aveva in serbo per noi e per il raggiungimento della propria maturità musicale, la quale, ormai è chiaro, non si limita alla sola etichetta “punk”.

(2022, Partisan)

01 In ár gCroíthe go deo
02 Big Shot
03 How Cold Love Is
04 Jackie Down The Line
05 Bloomsday
06 Roman Holiday
07 The Couple Across The Way
08 Skinty Fia
09 I Love You
10 Nabokov

IN BREVE: 4/5

Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.

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