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Glasser – Interiors

interiorsOrmai virare verso i soundscape bjorkiani sembra un passo obbligatorio, oltre che un percorso facile e sicuro per tante stelline o presunte tali dell’electro-pop al femminile. Rinunciando ai tratti peculiari che possono differenziarne lo stile nell’inflazionato panorama, tante artiste danno alla luce album dai suoni perfetti, rigogliosi d’eco e che richiamano atmosfere eteree e oniriche, ma non scavano nell’anima, semmai azzeccano una, al massimo due canzoni. Il resto è passabile, se non dimenticabile.

Succede che Cameron Mesirow, meglio nota come Glasser, nel 2010 esce con “Ring” e sorprende un po’ con tutti con quel caleidoscopio di elettronica, melodie pop d’autore e cenni world music che, se non originale, quantomeno risultava intrigante. A tre anni da quel fortunato esordio, la cantautrice losangelina torna in pista con una prova ambiziosa (pretenziosa?) che disconosce gli impulsi “etnici” e complica le texture.

Ispirato a “Delirious New York”, saggio pubblicato nel 1978 dall’urbanista e architetto olandese Rem Koolhaas sulla congestionante urbanizzazione di Manhattan, Interiors è un album di “design” sonoro costruito con una cura certosina del dettaglio che richiede parecchia attenzione (gran pregio) ma che non affonda (grandissimo difetto).

Rivestite da un elegante packaging sonico, le canzoni stanno recluse nella loro bella torre di narcisismo, ci osservano da lontano senza alcuna voglia di sfiorarci.

Gli episodi migliori sono quelli che suonano “meno Glasser” di tutti: i quasi plagi bjorkiani di Forge e dell’acquerello Window I (che fa parte di una suite divisa in tre parti); gli occhiolini a Kate Bush tra i volteggi orientali di Exposure; i delicati cristalli di Dissect (il brano migliore in assoluto); la sognante Divide, vibrante climax finale con intarsi di koto.

C’è poi una sfilza di canzoni dalla media temperatura che non infiammano mai l’atmosfera e la cui presenza o assenza non cambierebbe nulla nel quadro generale. Su tutte, le peggiori si fanno carne nei tentennamenti avant-pop di Landscape e nella pacchiana Keam Theme, che è una versione scadente di qualcosa di Jo Hamilton.

Insomma, “Interiors” è una collezione di canzoni sicuramente ben arrangiate, ma che sotto nasconde una scrittura fragile che non si solleva neanche con la voce della Mesirow, tanto scolastica da difettare in emotività. Le manca la capacità vocale di entrare nelle viscere, di far venire quel brivido che ti rimane come un’impronta nell’anima. Un po’ come “Interiors”, d’altronde.

(2013, True Panther Sounds)

01 Shape
02 Design
03 Landscape
04 Forge
05 Window I
06 Keam Theme
07 Exposure
08 Dissect
09 Window III
10 Window II
11 New Year
12 Divide

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