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Iosonouncane – IRA

Iniziamo con una premessa, una nota a margine necessaria per poter discutere dignitosamente di musica italiana, musica italiana della quale si parla, peraltro, ormai solo in rare occasioni – X Factor, quest’anno, e poi Sanremo, quel diabolico circo di cinque ore per cinque giorni, che sembra rimasto l’unico momento di attenzione, tristemente. Ecco, Sanremo, la kermesse, come piace dire a quelli che ne parlano, potrebbe essermi d’aiuto, dato che la famosa “musica indie” quest’anno ha veramente avuto il rivoluzionario ruolo da protagonista. Debordante di nuovi protagonisti, tanto che qualcuno potrebbe aver pensato: “Oooh, finalmente una ventata di aria fresca!”. E invece la musica era sempre quella. Qualche pezzo scritto drammaticamente peggio, qualche altro intelligentemente meglio (ad esempio i veterani della scena Dimartino e Colapesce che hanno piazzato la hit, per niente casuale), ma musicalmente erano protagonisti differenti – certamente in media più giovani dell’età media dei personaggi normalmente scongelati annualmente appositamente dal laboratorio criogenico per la manifestazione – a cantare la stessa, banale, insipida, malscritta robaccia.

E allora che cazz’è st’indie?

“Indie”, tanti anni fa, significava “indipendente”, contrapposto alla musica delle cosiddette “major”, le grosse, danarose case discografiche che sganciavano dollaroni per un certo tipo di musica, mentre a un altro tipo di musica – quella non conforme con ciò che loro credevano fosse palatabile e vendibile – e soprattutto ad un altro tipo di musicista, dicevano “bello mio, il tuo disco ficcatelo in culo, non lo comprerà nessuno perché a noi fa schifo quindi fa schifo a tutti, noi abbiamo i soldoni bello mio, capisci bene? Quindi vedi un po’ di levarti dalle palle, torna a suonare in camera tua”. E allora il caro artista si rivolgeva alle etichette indipendenti, certamente con meno dollaroni ma decise a lasciare libere quelle voci, sicure che, nonostante il fatto di essere diverse (o forse proprio per quello), ci sarebbe stato qualcuno che sarebbe stato lieto di ascoltarle. Indipendenti nel pensiero, indipendenti nel senso di non dipendere da tromboni in giacca e cravatta e dalla loro idea di cosa potesse essere un successo musicale.

Ciò ha avuto un senso fintanto che la musica si vendeva. Il dopo Napster, quello che in diverse modalità e fasi stiamo vivendo da una ventina d’anni, ha comportato un qualcosa di veramente curioso: l’indipendente, che una volta erano gli Hüsker Dü, i Polvo e roba generalmente molto lontana dalla cultura di massa, è diventato i Modest Mouse, con un Grammy, una pubblicità Nissan e che registrano per la Epic; in Italia Calcutta, i Cani, Thegiornalisti… cantautorato tradizionalissimo ma scritto e suonato peggio. Indipendente? Perché usa qualche parola “gggiovane”? No, no: sentite Sanremo, torniamo a Sanremo, musicalmente sta benissimo insieme ai ragazzi di Amici, ai ragazzi di X Factor, ai veterani della kermesse, perché, semplicemente, è la stessa stramaledetta roba, ci hanno appiccicato un’etichetta che funga da marchio identitario per chi non se la sente di ascoltare quella stessa roba ma prodotta dall’artista del talent di turno, e chi s’è visto s’è visto.

Se a questo punto vi state chiedendo perché io vi stia attaccando ‘sto pippone tremendo quando sarei qui a dover recensire il terzo album di Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, io lo posso capire. Ma lasciatemi continuare col pippone. Perché Iosonouncane, vuoi per la difficoltà di categorizzazione, vuoi perché la pigrizia di chi scrive è pari all’emorragia di chi legge di musica (che siano correlate?), è stato, con il grande successo del suo “DIE” (2015), piazzato in mezzo all’indie italiano. In mezzo alla tachipirina cinquecento che se ne prendi due diventa mille, capite? Con Maradona che è megl’è Pelè e le fiamme negli occhi che se mi guardi mi bruci, mi spiego? Ma “DIE” aveva molto poco a che fare con quel mondo, e men che meno ci può avere a che fare IRA, un lavoro fortemente ambizioso, intricato, “una ferma rivendicazione di complessità” l’ha definito lo stesso Incani.

Si piace, e sa di piacere: “IRA” era programmato per il 2020, anticipato da un tour teatrale nel quale avrebbe, con la band che l’album l’ha registrato, presentato l’album, del quale il pubblico non conosceva assolutamente nulla; nonostante ciò, svariate date erano già sold out prima di tutto il delirio col Covid-19 che ha fatto saltare i piani di tutti. Parla di “IRA” con fierezza, con sicurezza, con orgoglio del lavoro svolto e non è difficile capire perché, dato che l’album, scritto in una sorta di interlingua che mischia arabo, italiano, inglese, francese, tedesco e spagnolo, è un’opera debordante di dettagli, nella quale niente nelle quasi due ore di durata, viene lasciato al caso. Ci ha lavorato per anni (a partire dal 2016), insieme ad un eccellente ensemble: Mariagiulia Degli Amori, Serena Locci, Simona Norato, Simone Cavina, Francesco Bolognini, Amedeo Perri. E l’ha studiato affinché possa essere suonato dal vivo, così come lo ascoltiamo su disco.

Sembra quasi sterile parlare della musica di “IRA”, sembra quasi, per una volta, che quella stronzata del “danzare di architettura” attribuita a Frank Zappa abbia un senso. “Ascoltare”la musica, per Dio, con passione, pazienza, dedizione. Certo, potrei riportarvi la solita lista di influenze: il krautrock, la musica magrebina, l’elettronica, gli Swans, l’industrial, Robert Wyatt; c’è pure un tocco radioheadiano, dell’epoca di “Kid A” (probabilmente dovuto al fatto di avere influenze simili). O potrei toccare i temi chiave, spesso reiterati da Incani medesimo in numerose interviste: l’incomunicabilità, il racconto di una moltitudine in viaggio, l’allontanarsi dal luogo di nascita ed esplorare luoghi diversi, tentando di comunicare con l’altro da sé. Ma non so se ciò renderebbe giustizia a questo lavoro. Un album, nell’epoca dello streaming, delle playlist preparate da qualche cazzo di curatore pagato qualche spiccio l’ora per fare un riassunto delle tonnellate di cazzate pubblicate, che pretende un ascolto e uno sforzo diverso; la dedizione che la musica ha sempre meritato e che abbiamo dimenticato di dargli. Potrei dirvi, finalmente, che “indipendente”, dovrebbe significare proprio questo: lavorare scevri da condizionamenti, per il bene della propria arte, con un’idea in testa.

A volte claustrofobico, crudo, soffocante, ripetitivo, altre rigoglioso, che solleva, che innalza, “IRA” è un’opera di respiro internazionale, nel senso che una volta tanto può ambire a non essere ascoltata in quello stagno retrocesso ad acquitrino ormai un po’ puzzolente che è il mercato italiano, ed è un lavoro che trova la sua ambizione nella musica medesima e non nell’ambizione di essere qualcuno, di fare soldi e successo “se necessario persino con la musica”, che sembra ormai l’unica cosa che conta. È chiaro, un album difficile – seppur non propriamente “sperimentale” – di quasi due ore di durata, per di più sul quale la critica sbrodola da settimane, troverà un nutrito nugolo di detrattori, ma del resto accade – nella musica, nel cinema, che cazzo ne so… nella letteratura – ogni volta che qualche italiano azzarda e riesce, come se fosse una colpa l’ambizione di fare qualcosa che si elevi dalla mediocrità.

Non è per tutti, altrettanto chiaro, ma non vi aspettate “Metal Machine Music”. Parliamo di fare attenzione, per una cazzo di volta, non mi sembra un qualcosa di esagerato, soprattutto per la musica. La musica… l’abbiamo abbandonata un po’, relegata ad essere immondizia usa e getta. Incani ha parlato di “gesto politico” per questo suo album. Possiamo solo sperare che questo gesto sortisca l’effetto di ridimensionare, in senso più ampio, il ruolo della musica nelle vite non tanto di noi vecchi rompicoglioni che danziamo di architettura, quanto di chi prende uno strumento in mano per la prima volta, affinché capisca la potenza di quello strumento, una potenza che va ben al di là dell’effimero successo usa e getta al quale sembra ridotta la nostra terra, un tempo debordante di artisti straordinari.

(2021, Numero Uno / Trovarobato)

01 Hiver
02 Ashes
03 Foule
04 Jabal
05 Ojos
06 Nuit
07 Prison
08 Horizon
09 Piel
10 Priere
11 Niran
12 Soldiers
13 Fleuve
14 Sangre
15 Petrole
16 Hajar
17 Cri

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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