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Muse – Drones

dronesNel ristrettissimo Olimpo delle rock band che riempiono stadi da parecchie migliaia di posti, da un po’ di anni a questa parte i Muse sembrano avere come unico scopo di vita artistica proprio questo: imbarcarsi in tour milionari giustificati da nuovi album che di nuovo non hanno nulla, gettati in pasto al mercato discografico quasi esclusivamente come pretesto per mettere in moto i promoter. Come si potrebbero valutare altrimenti “Black Holes And Revelations” (2006), “The Resistance” (2009) e “The 2nd Law” (2012)? Va da sé che l’annuncio della loro ennesima e puntualissima uscita a cadenza triennale non abbia destato chissà quale interesse fra gli addetti ai lavori, specie i più allergici al rock da arena. Una volta fra le mani, col suo artwork che magnanimamente definiremo opinabile, Drones salta però all’orecchio per più di un motivo.

Innanzitutto si tratta di un concept, banale e abusatissimo come quello orwelliano di una società distopica, ma è pur sempre un filo conduttore che mostra un minimo di sforzo creativo. Peraltro gli spunti, anch’essi a dir poco riconoscibili, vanno dal Sergente Hartman del capolavoro di Stanley Kubrick “Full Metal Jacket” (il cui “stile” viene ripreso nell’intermezzo Drill Sergeant e anche in quella Psycho che per prima ha anticipato l’album) alla viva voce di John Fitzgerald Kennedy (nell’altro intermezzo JFK), passando per frasi in orbita “The Wall” (e con “in orbita” intendiamo che ci girano semplicemente intorno senza alcuna possibilità di avvicinarsi) e tanta altra letteratura affine a quella dell’autore di “1984”. L’uomo – nel senso di umanità – protagonista viene sottomesso in Dead Inside, plagiato in The Handler, combattuto nel suo vano tentativo di ribellione in Defector e infine definitivamente annientato nella title track che chiude l’album (più un requiem che un brano vero e proprio). Percorso standard, ma convincente.

Anche musicalmente, al netto dei soliti esasperanti gorgheggi di casa Bellamy, in primo piano in Mercy, e del disturbante refrain pop di Revolt, si scorgono elementi che fanno respirare rispetto al passato recente della band: vedi certe divagazioni hard rock che percorrono i momenti più duri, vedi certe chitarre spaziali (ad esempio in Reapers) che riportano indietro a quel “Origin Of Symmetry” giustamente acclamato nel 2001, vedi soprattutto il binomio Aftermath / The Globalist che nei suoi 16 minuti vale l’intero disco. Languori chitarristici à la David Gilmour, rumori ambientali, archi e un pianoforte che cuciono una lunga opera rock vicina a quei Queen da sempre punto di riferimento della band (checché ne dica Matthew Bellamy).

Parlare di rinascita o di ritrovata verve compositiva è forse troppo, ma di certo siamo al cospetto di un disco che alza un tantino l’asticella dei Muse non sfigurando tanto quanto ci si attendeva. Autocitazionismo a palate, ruffianeria e mestiere restano le armi preferite dei Muse, ma la sufficienza almeno stavolta riescono a strapparla.

(2015, Warner)

01 Dead Inside
02 (Drill Sergeant)
03 Psycho
04 Mercy
05 Reapers
06 The Handler
07 (JFK)
08 Defector
09 Revolt
10 Aftermath
11 The Globalist
12 Drones

IN BREVE: 3/5

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