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Muse – The 2nd Law

Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita; questa selva oscura era il decennio appena passato, il medioevo della musica rock, l’era buia nella quale il pop coi chitarroni di Bellamy e soci fu osannato in maniera trasversalmente incomprensibile come meravigliosa realizzazione dell’Arte, quella con la “A” maiuscola, sotto gli occhi e le orecchie basite di chi, come noi, trovava non più che gradevoli gli alternativi del Devonshire, lungi dall’essere profeti di alcunché. The 2nd Law arriva nel 2012, largamente anticipato dal primo singolo Madness (durissimamente criticato anche dai fan più fedeli, ma ci arriveremo), quindi ben tre anni dopo “The Resistance”, il primo album dei Muse a non ricevere unanimi critiche positive sin dall’esordio, dieci anni prima, con Showbiz. Così come con “The Resistance”, durante il lungo periodo di gestazione il gruppo inglese ha fatto trapelare notizie di un album “elettronico”, usando stavolta il termine modaiolo dubstep, che drammaticamente conosciamo grazie a Skrillex e soci e che preferiremmo fosse cancellato dalla faccia della terra. Tuttavia, stavolta, il singolo che anticipa l’album è sul serio un singolo che incorpora l’elettronica nel suono portante. La incorpora in una maniera imbarazzantemente dilettantistica, una sorta di “I Want Your Sex” del nuovo millennio ma senza un briciolo di sensualità. Qualcuno, ad Oxford, si starà facendo una grassa risata. Approcciandoci all’ascolto dell’intero long playing, ci si presentano davanti tre fiere di dantesca memoria: la fiera della noia, che con violenta bestialità dilania le nostre carni già intorno al terzo pezzo; la fiera dell’imbarazzo, che conficca le sporche unghie nella nostra schiena, mentre invano cerchiamo di scappare dai patetici tentativi di plagiare ancora una volta i Queen (Survival) o, sorprendentemente, Michael Jackson e “Superstition” di Stevie Wonder (Panic Station); ed, infine, la fiera della rabbia cieca dei sopravvalutati, che banchetta sul nostro stanco e ferito corpo dopo aver ascoltato le due imbarazzanti tracce finali (la cui unica voce è una: femminile, recitante, incomprensibile, che parla di economia non sostenibile o qualcosa che il nostro smembrato cadavere ha rifiutato di assimilare nonostante ripetuti e dolorosissimi ascolti). La verità è che i Muse probabilmente non sono capaci di far altro che la solita, sopravvalutatissima solfa pop da classifica (che del resto li ha portati a riempire gli stadi e a ricevere critiche entusiastiche) con chitarre elettriche, di più che discreta fattura tecnica, e con un frontman dalla potenza vocale non indifferente. Questa magniloquente ricerca di nuove forme espressive è forse un modo per cercare di dimostrare la statura artistica della band? E’ forse un modo per evitare la noia che, inevitabilmente, il ripetersi all’infinito comporta? Ancora, è un modo per cercare di integrarsi nel mercato discografico in continuo movimento? Infine, è un modo per tentare la medesima, gloriosa virata tentata dai Radiohead, gruppo al quale i Muse sono spesso e volentieri (in maniera del tutto impropria) accostati? Quale che sia la ragione, il risultato è quello di un pizzaiolo, neanche troppo bravo, che per la prima volta assaggia la marmellata e pensa: “Diavolo, è buona questa roba! Dovrei metterne un po’ sopra la mozzarella di bufala!”. Gli unici pezzi a salvarsi in questo disastro sono, infatti, quelli che rispettano in toto il canone-Muse, come l’introduttiva Supremacy o la più morbida Explorers, le quali, prevedibilmente, sono assolutamente prevedibili in ogni passaggio. Non serve alla causa nemmeno il fatto che Bellamy si faccia da parte per far posto alla voce di Chris Wolstenholme in ben due pezzi (peraltro consecutivi), spezzando la monotonia dell’over-the-top, la fiera della noia incede nella sua straordinaria ferocia e ci fa inveire con un sonoro: “Che palle!”. “I’m gonna win / And I’ll light the fuse / And I’ll never lose / And I choose to survive / Whatever it takes” canta Bellamy nell’olimpica “Survival” (“olimpica”, si capisce, sol perchè usata come canzone ufficiali delle Olimpiadi 2012), ma il cammino nel buio medievale dell’era dei Muse potrebbe essere davvero finito stavolta. No, bello mio. You’re not gonna win. Not this time.

(2012, Warner)

01 Supremacy
02 Madness
03 Panic Station
04 Prelude
05 Survival
06 Follow Me
07 Animals
08 Explorers
09 Big Freeze
10 Save Me
11 Liquid State
12 The 2nd Law: Unsustainable
13 The 2nd Law: Isolated System

A cura di Nicola Corsaro

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