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Rolling Stones – Hackney Diamonds

C’è una recentissima intervista di Keith Richards al Tonight Show di Jimmy Fallon nella quale il buon Keef, chitarra-munito come sempre negli ultimi 70 anni della sua vita, su richiesta espone tre dei grandi classici della storia stonesiana: “Honky Tonk Woman”, “Start Me Up”, “Jumping Jack Flash”. Fin qui, niente di strano; o meglio, nulla di strano se non si presta realmente attenzione, in particolare a “Start Me Up”: la band in studio – i fenomenali Roots diretti da Questlove, uno dei migliori bandleader e batteristi degli ultimi 30 anni, senza discussione alcuna – incomincia a suonare, dando un lieve tappeto sonoro a Keef, un soffice beat. È qui che bisogna prestare attenzione: Keith fottuto Richards sembra non essere a tempo ma, incomprensibilmente, lo è. Che sia un errore di uno dei più grandi chitarristi di sempre su uno dei suoi riff, che suona praticamente in maniera ininterrotta dal 1978 è impossibile; parimenti, che Ahmir “Questlove” Thompson, batterista sopraffino, professionista immacolato con decenni di esperienza da musicista e bandleader ai più alti livelli, non sia capace di stare a tempo su un 4/4 semplicissimo è oltre i confini della realtà.

In quel giocoso momento, parte di un’intervista promozionale per il 26esimo (o 24esimo, dipende da che lato dell’Atlantico decidiate di contare) album di studio della più grande rock’n’roll band di sempre, c’è una chiave di lettura fondamentale, un momento rivelatore buttato lì da Mr. Richards come nulla fosse, in quel ridicolo inseguirsi di riff e beat che pare una scena de “Il Monello” di Chaplin. Un momento che riporta, conoscendo la storia, al famoso aneddoto (chissà se vero o posticcio) di Jeff Beck che viene provinato dagli Stones dopo l’uscita dalla band di Mick Taylor e che, dopo una singola prova, esce sbattendo la porta in faccia ai Glimmer Twins dicendogli “imparate prima a suonare, e poi ne riparliamo”.  Ma era Beck a non aver capito, a non aver afferrato quel segreto così palese ed evidente: gli Stones non seguono le regole, le fanno loro.

“Non sanno suonare”, semplifica qualcuno, ma capite bene che è una narrazione (ormai consolidata) che cozza con ciò che le orecchie sentono. La dinamica musicale tra gli elementi della band dipende non dal beat, ma dal sentire la musica, un sentire che non ha nulla a che vedere col concetto di improvvisazione jazzistica o persino blues, un sentire che riguarda frazioni di secondo, e rende unica quella miscela, e rende “sbagliata” quasi qualunque cover di questa band sentita nella storia del rock, cosa che non è mai accaduta con i Beatles, per esempio. Beck, qualunque cosa sia successa realmente, andò davvero via da quel provino, ma, a dispetto dell’immenso talento del chitarrista inglese, semplicemente non capiva, cosa che invece Ronnie Wood ha fatto istintivamente, immediatamente. E con questo segreto alla luce del sole, Jagger e Richards – rispettivamente 80 e 79 anni – sono ancora qui dopo 61 anni a presentarci con entusiasmo Hackney Diamonds, secondo album di inediti del nuovo millennio per la band inglese e una delle loro migliori uscite dagli anni ’80 a oggi.

Prodotto con l’ormai fido Don Was (già con gli Stones per “Voodoo Lounge” del ‘94 e sin da allora) e con Andrew Watt, uomo d’oro del momento, già produttore per Ozzy, Iggy Pop, Post Malone, Ed Sheeran e ancora tanti altri, che diventa anche uno dei pochissimi nella storia del rock a poter condividere un credito autoriale in un pezzo con Jagger e Richards, essendo qui autore infatti in ben tre pezzi, tra i quali il primo singolo estratto e apripista Angry.

Inutile parlare del cast stellare di ospiti: Stevie Wonder, Elton John, una superlativa Lady Gaga (che con Sweet Sounds Of Heaven continua a dimostrare di essere un talento sin troppo limitato dalla mancanza di un team di autori che le scriva qualcosa di dignitoso) e persino Sir Paul McCartney, vecchio rivale e amico, che insieme al compare Lennon ha scritto il secondo singolo di questa ancora giovane band, quasi esattamente 60 anni fa; inutile non tanto perché non siano ancora meravigliosamente in forma e perfettamente integrati nel suono del disco, ma perché, oggettivamente, non esiste quasi nessuno al mondo che rifiuterebbe di suonare in un disco degli Stones. E poi due Stones: Bill Wyman, bassista dall’esordio al 1993, che torna qui per Live By The Sword e l’immenso, immortale Charlie Watts, scomparso nel 2021, ma ancora qui per Mess It Up e ancora Live By The Sword, che nel resto del disco è sostituito da Steve Jordan, non solo amico personale di Keef ma anche incidentalmente uno dei più grandi batteristi di sempre. Ascoltando il disco, tuttavia, si capisce che il discorso non è il talento di Jordan. Il discorso è che Jordan capisce, gioca, entra nel discorso e rende perfettamente onore a Charlie.

Ma non vorremmo darvi l’impressione che sia solo un discorso di personaggi, di storie, di passato. “Hackney Diamonds” è un grande disco di pop/rock/blues, che suona da Dio ed anche radiofonicamente suona moderno senza essere immondizia – un miracolo al momento nel rock, possibile solo per l’orecchio sopraffino di Jagger, da sempre capace di stare al passo con i suoni. “Hackney Diamonds”, il cui titolo fa riferimento al quartiere londinese di Hackney, oggi molto hip ma nel quale rimane sempre facile che qualche stronzo ti spacchi il vetro della macchina (lasciando in terra gli hackney diamonds, per l’appunto) musicalmente torna indietro a “Voodoo Lounge”, ma senza le divisioni personali che in quell’album emergevano evidenti; di esso, uscito 29 anni fa, però conserva quella freschezza che emerge in questi undici pezzi originali (e una cover, ma ci arriveremo) una vitalità che dovrebbe essere di insegnamento a chi imbraccia per la prima volta una chitarra, in un genere che di vitale ha molto poco da ormai tanti anni. Certamente, verrà derubricato a boomerata da tutti quelli che non capiscono, non capiscono che la musica è musica, ed esistono solo due generi di musica, come diceva il maestro Duke Ellington: la buona musica e la cattiva musica. E questa, che sia suonata da ottantenni o da ragazzini, è ottima musica.

Non sappiamo (e forse non lo sanno neanche loro) se questo sarà l’ultimo disco dei Rolling Stones: forse l’artrite che ha colpito Keith Richards potrebbe costringerlo a fermarsi, forse potrebbero averne le palle piene o forse potrebbero continuare a stupirci e pubblicare un altro album, o altri due, o altri tre. Quello che sappiamo è che la conclusione di questo “Hackney Diamonds” è la chiusura di un cerchio perfetto: una cover immacolata di Rolling Stone Blues, conosciuta anche come “Catfish Blues”, ovvero quel pezzo di Muddy Waters, originariamente vecchio blues del delta, che un giovane Brian Jones scelse come nome per la band che aveva appena fondato guardando un vinile poggiato sul pavimento.

2023 | Polydor

IN BREVE: 4/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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