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Sepultura – Machine Messiah

Vent’anni anni sono passati da quando Max Cavalera, fondatore, voce e chitarra dei “Sepu”, lasciò una band al culmine del successo; una band che stava, tra le altre cose, traghettando da capitano una scena, quella thrash metal, in evidente crisi di identità. Vent’anni di critiche su più fronti: il sound non più incisivo, la voce di Green mai completamente a suo agio nel progetto, la qualità complessiva decisamente limitata. Ma anche vent’anni di perseveranza, senza guardare in faccia nessuno, in barba alle continue voci di reunion e soprattutto lottando contro lo zoccolo duro dei propri fan, mai accomodanti e costantemente propensi al confronto col glorioso passato. Maturità. Consapevolezza. Indipendenza. Tre parole per descrivere i Sepultura del 2017 e la loro ultima fatica discografica, Machine Messiah. Maturità perché forse per la prima volta dopo 20 anni hanno vinto loro, con un disco finalmente di livello. Un lavoro più complesso dei precedenti, un concept album nel quale l’esperienza di Kisser alla composizione lascia poche occasioni di storcere il naso e anzi regala passaggi particolari che spaziano verso sonorità meno convenzionali al combo brasiliano.

Consapevolezza intesa come coscienza dei propri mezzi. Le vocals sono potenti e ben modulate come mai nella carriera di Green. Quella sensazione di riempitivo non c’è più e in alcuni passaggi la fa quasi da protagonista azzardando un cantato in clean certamente godibile. La sezione ritmica è sugli scudi, specialmente il drumming di Casagrande è davvero ben studiato, coinvolgente e avvolgente. Indipendenza perché finalmente il fantasma dei fratelli Cavalera ha abbandonato lo studio di registrazione restituendo una sensazione di fresca rivelazione. I Sepultura sono una band “nuova”, che dà l’impressione di vivere una fugace seconda giovinezza e i nostri ci tengono per quanto possibile a dimostrarlo.

“Machine Messiah” apre con la title track, che non rispetta il trademark classico del genere, un arpeggio introduce a una passeggiata sonora dal profumo vagamente doom. Lo straziante, sofferto, apocalittico incedere lascia il passo a I Am The Enemy, brano decisamente speedy che mixa una ritmica teutonica con una sezione solista di scuola slayeriana. Con Phantom Self il primo e vero pezzone del disco: devastante nelle strofe, nei bridge e nel chorus, un pezzo di thrash moderno che non sfigurerebbe nella discografia di maestri quali i Nevermore di fine carriera, con l’aggiunta di archi orientaleggianti e un drumming tribale a dare spessore e varietà al tutto.

Alethea, come pure Sworn Oath, sono composizioni solide ma evidentemente sottotono rispetto al resto, poco aggiungono e forse qualcosa tolgono al complesso. Sono giusti riempitivi anche se, soprattutto nel secondo brano, l’intenzione di offrire qualcosa di diverso dal solito c’è. Iceberg Dances qualcosa di nuovo e superiore invece lo offre eccome: strumentale di livello assoluto, disegna percorsi intricati ma mai caotici; tastiere e riffing progressive si incrociano a meraviglia, percussioni indigene e accordi acustici rilassano il ritmo per poi permettere che sia l’elettricità a risollevarlo in un complesso che lascia quasi interdetti per quanto sia, a tutti gli effetti, una novità. Applausi. Sinceri.

Le successive Resistant Parasites e Silent Violence fanno il loro sporco, necessario lavoro, scaricano violenza sulle orecchie mantenendo comunque un’impostazione ragionata. È la ritmica ciò che più cattura attenzione: mai mero accompagnamento quanto più protagonista indiscussa delle composizioni che portano a braccetto vocals energiche e decise.

Vandals Nest è un potente uptempo old school che sfocia in un chorus di ampio respiro, ultima sparata adrenalinica che ha il compito di introdurre un ulteriore brano di livello elevato, Cyber God. Il disco si conclude quasi come aveva iniziato, riprendendo un cavalcante incedere che però racchiude innumerevoli elementi di profondità al suo interno. In Cyber God c’è tutto, ed è pure mixato egregiamente: una solistica heavy duella con ideali puramente death/thrash e la congiunzione tra l’urlato refrain ed il resto del pezzo è garantita da due strofe che sono quanto di più Opeth di metà carriera ci si possa aspettare da qualcuno nel 2017.

La speranza che “Machine Messiah” non rimanga un episodio isolato è buona; le premesse, infatti, che i Sepultura abbiamo compreso come affrontare questa ennesima parte di loro carriera pare si siano rivelate. A loro il compito di dare un seguito con convinzione, anche riprendendo quella manciata di elementi freschi e di effetto che si respirano a tratti in questo buonissimo lavoro.

(2017, Nuclear Blast)

01 Machine Messiah
02 I Am The Enemy
03 Phantom Self
04 Alethea
05 Iceberg Dances
06 Sworn Oath
07 Resistant Parasites
08 Silent Violence
09 Vandals Nest
10 Cyber God

IN BREVE: 4/5

Da sempre convinto che sia il metallo fuso a scorrere nelle sue vene, vive la sua esistenza tra ufficio, videogames, motociclette e occhiali da sole. Piemontese convinto, ama la sua barba più di se stesso. Motto: la vita è troppo breve per ascoltare brutta musica.

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