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Sharon Van Etten – We’ve Been Going About This All Wrong

Sharon madre, Sharon figlia, Sharon amante, Sharon amata, Sharon adeguata, Sharon sbagliata. Non si risparmia mai quando deve mettere su carta i propri stati d’animo, la Van Etten. Il risultato è (quasi) sempre giusto: la prosa è fluida, attinge al vissuto senza mai risultare scontata o pesante. Usa parole appropriate, Sharon, per fare il punto della situazione sulla sua vita: We’ve Been Going About This All Wrong. Un titolo che sottintende un intelligente interrogativo e non una dichiarazione di fallimento rispetto a tutto quello che è accaduto fino ad ora.

L’avevamo lasciata tre anni fa alle prese con i giocattoli e i bisogni del nascituro, con le paure delle nuove responsabilità, ma anche con l’eccitazione del nuovo evento. Una maternità totalizzante che non aveva, però, relegato in soffitta la voglia di raccontare e di raccontarsi. Sharon, adesso, l’ha interiorizzata, ma non ha smesso di ricercare risposte a vecchi e nuovi quesiti. Le ombre, che sempre l’hanno accompagnata sin dagli esordi, oggi rappresentano meno un fardello. Sono la cartina di tornasole del suo vissuto, un monito per tenere insieme il presente. Questo disco la Van Etten lo ha cominciato a scrivere poco dopo il trasferimento a Los Angeles agli inizi del 2020, per poi continuare in piena pandemia. Ma non è un lavoro che si focalizza su quello, o meglio, non è l’argomento centrale. Non è un disco sulla pandemia bensì nella pandemia, un contorno che ne ha influenzato il vissuto e la scrittura.

“We’ve Been Going About This All Wrong” non vede compartecipazioni alla scrittura, in più Sharon suona una miriade di strumenti (basso, chitarra, vari synth, organo, drum machine, il tamburello e pure il Wurlitzer) coadiuvata da Charley Damski, Benji Lysaght, Jorge Balbi, Owen Pallet, ma soprattutto Daniel Knowles che compare anche tra i credits relativi alla produzione, oltre alla stessa Van Etten. La scelta di non anticipare alcun singolo prima dell’uscita del disco ha senso: è un lavoro granitico dal punto di vista dei suoni e delle atmosfere. I pezzi apripista non mancano (Headspace, Mistakes, Home To Me, Anything) ma nell’economia generale è la successione il loro punto di forza. Non si parla mai abbastanza dell’importanza di saper costruire una tracklist: qui c’è ed è una delle peculiarità di questo disco, perchè sa dare il giusto peso alla sua storia.

L’introduzione acustica, presa in prestito dagli esordi, dissipa le attese e accoglie l’ascoltatore circuendolo con un abbraccio delicato. Home To Me porta con sé il flebile calore del primo bagliore primaverile: la ritmica sincopata e gli accenni stratificati di elettronica risvegliano i circuiti uditivi, ben pronti ad accogliere anche la Sharon ostinata di I’ll Try, non disposta a scendere a compromessi sui sentimenti. Le fragilità emotive sono un altro dei luoghi narrativi del disco: Anything è la sintesi delle paure dettate dalla responsabilità di una nuova vita in tempo di pandemia. Innodica à la Patti Smith, è una ballad che mostra la foggia della songwriter di razza.

Headspace, collocata nel mezzo del disco, è un’esplosione di sincero erotismo, oscura e sintetica, tra Throwing Muses e Yeah Yeah Yeahs. Il cuore è aperto e sanguina in Come Back, mentre in Darkish la luce è fioca perché alcuni fantasmi del passato non sono del tutto spariti. Ma ci pensa Mistakes a ricalibrare il tiro: elettropop che inneggia all’errore come forma assoluta di libertà. Il congedo suona nostalgico con Far Away, forse telefonato, forse no, però per nulla sbagliato. Come tutto il resto.

(2022, Jagjaguwar)

01 Darkness Fades
02 Home To Me
03 I’ll Try
04 Anything
05 Born
06 Headspace
07 Come Back
08 Darkish
09 Mistakes
10 Far Away

IN BREVE: 4/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.

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