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Tame Impala – Deadbeat

Chissà quando è accaduto, qual è stato il momento esatto in cui Kevin Parker ha deciso che basta, non voleva più essere un musicista di quelli che imbracciano strumenti ma preferiva perdersi tra bottoni e diavolerie elettroniche varie ed eventuali. La sua fascinazione per questo mondo non è certo cosa nuova, ha sempre serpeggiato negli angoli più reconditi dei Tame Impala e con “The Slow Rush” del 2020 s’era intuita la definitiva crescita di questa sua irrefrenabile propensione, ma che Parker potesse decidere di far diventare Tame Impala (che prima era un band e adesso è significativamente solo il suo moniker) questo tipo di progetto non era così scontato né atteso. Magari la vicinanza con il mondo patinato delle popstar con cui ha collaborato (Dua Lipa e Lady Gaga su tutte) ha in qualche modo influito, ma questa nuova dimensione da producer che Parker si è cucito addosso non riesce a convincere del tutto. Anche perché, se un producer è ciò di cui abbiamo bisogno, davvero è ciò che propone Parker a poterci soddisfare?

La psichedelia che è stata il cuore pulsante dei Tame Impala resta ancora il − lontano, a dirla tutta − mondo di riferimento anche in Deadbeat, più nelle dilatate e narcolettiche intenzioni che nella sostanza, ma Parker declina il tutto in una stramba forma da rave ripulito dalle sostanze stupefacenti, quindi non particolarmente divertente e non particolarmente coinvolgente. Siamo piuttosto davanti a un’ora scarsa − ed è troppo, decisamente troppo prolisso, primo e più lampante problema del disco − di elucubrazioni in cui Parker dà tutta l’impressione di stare lì a jammare con se stesso, perdendosi in un mare di derive di cui si riconoscono a stento le radici ma ancora più difficilmente la direzione. Ed è questa autoreferenzialità, questo pizzico − per andarci leggeri − di presunzione, a rendere “Deadbeat” un disco potenzialmente soporifero, se non fosse per il singolo Dracula, che in qualche modo richiama la vecchia natura dei Tame Impala, o Ethereal Connection ed End Of Summer che hanno quantomeno il merito di spingere a dovere sull’acceleratore. Nel mezzo Parker flirta col reggaeton, con tribalismi sentiti chissà dove in giro per il mondo, con grovigli sintetici spesso forzati. Niente, davvero niente di memorabile o che vada oltre una stentata sufficienza.

La domanda, alla fine, resta pur sempre la stessa che ci siamo posti all’inizio: avendo voglia di ascoltare questo genere di musica, ha senso rivolgersi a Kevin Parker/Tame Impala o possiamo trovare di meglio altrove? La risposta è inequivocabilmente no, tanto vale andare a pescare da chi questo mestiere l’ha sempre fatto e pure meglio perché, come in qualsiasi altro lavoro, anche nel mondo dei producer non è semplicissimo improvvisarsi tali, quantomeno non in modo convincente, e onestà intellettuale vuole che ciò vada detto, a prescindere dall’ammirazione per ciò che Parker ha fatto in passato e senza volergli mancare di rispetto. Tame Impala resta così in un limbo, rischiando di deludere tanto da un lato quanto dall’altro, rischiando soprattutto di inficiare un percorso che, fino a un certo punto, è stato uno dei più significativi degli anni Dieci. Un vero peccato.

2025 | Columbia

IN BREVE: 2,5/5

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