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Ulrika Spacek – Modern English Decoration

Sul nuovo disco degli Ulrika Spacek non c’è molto da dire. Anzi, pardon, da aggiungere. E la ragione è semplice, perché tutto è stato già detto, puntualizzato come i paragrafi di un manifesto programmatico al loro esordio dello scorso anno.

C’è forse invece come un voler fare un passo indietro, un voler semplificare le regole del gioco. Se infatti “The Album Paranoia” era il disco delle numerose influenze che si amalgamavano raggiungendo un equilibrio e una originalità che iniziava a essere marchio distintivo, carattere della formazione anglo-berlinese, Modern English Decoration è un chiudere le imposte alle correnti esterne, limitarne gli effetti, concentrarsi su poche cose e farle bene ma, a parere di chi scrive, spegnere quell’aura di mistero e decadenza dark che era uno dei punti vincenti del progetto Ulrika. In questo secondo capitolo – lo si legge già nei titoli della tracklist – viene a mancare la componente più psych, quasi nel senso clinico del termine, mancano i deliri, mancano le allucinazioni, è tutto più misurato, come se la mente fosse stata educata da non so quale terapia a seguire un percorso lineare, a tratti ripetitivo, e a operare una rimozione di ogni possibile deriva schizofrenica.

La via scelta o raggiunta è essenzialmente quella delle chitarre, che ritornano più autentiche, meno aguzze e riverberate, elementi invariabili di stabilità. Il singolo Mimi Pretend pare accennare alla traccia di apertura di “The Album Paranoia”, soprattutto nel ritornello, ma è più morbida, regolare, sulla scia di due riff come due binari paralleli, rotaie perfettamente allineate. Everything, All The Time sembra ricordare “She’s A Cult” del precedente lavoro, mentre l’eco dei cantati di Thom Yorke ritorna in Ziggy –  che del Duca Bianco ha poco – e Modern English Decoration. C’è quindi una ripresa evidente delle strutture formali e degli stili già consolidati e un rimarcare quelle strade già solcate, disegnando con la carta copiativa un percorso con poche deviazioni e decisamente più uniforme, che in definitiva riesce più ascoltabile ma anche molto meno suggestivo.

Bisogna attendere le ultime battute della pubblicazione per ritrovare una scintilla di originalità col dittico Victorian Acid/Protestant Work Slump, trofeo finale a doppia faccia, la prima aspra e dichiaratamente shoegaze, che ha nel climax iniziale, come un decollo, il punto forse più evocativo dell’album, la seconda fotonica, carica, in linea con quella limpidezza chitarristica e compositiva che di questo secondo lavoro (tentando di intravederne gli intenti) vuole essere la cifra.

(2017, Tough Love)

01 Mimi Pretend
02 Silvertonic
03 Dead Museum
04 Ziggy
05 Everything, All The time
06 Modern English Decoration
07 Full Of Men
08 Saw A Habit Forming
09 Victorian Acid
10 Protestant Work Slump

IN BREVE: 2,5/5

Assediato da un’infaticabile pigrizia, coltiva aspirazioni a iosa, tra cui scrivere, cantare e diventare medico. Sa di essere alla ricerca di un modo onesto e grande di vivere da sempre, almeno da quanto ricordi. Il suo cuore batte un tempo rock con un’extrasistole alternative inguaribile. Nelle vene torbido sangue blues.

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