Home RETROSPETTIVE Mucche, sogni distorti e folk metafisico nell’esordio degli Sparklehorse

Mucche, sogni distorti e folk metafisico nell’esordio degli Sparklehorse

C’è quest’immagine del ragno. Mark Linkous la tratteggia idealmente in “Good Morning Spider” (1998) onirico brano strumentale lungo settanta secondi contenuto nell’omonimo secondo album degli Sparklehorse. È un ragno in balia di se stesso, strangolato dalle sue stesse ragnatele, che ciondola e ciondola: più si dimena, più il nodo gli stringe la gola. E, certo, non è mai saggio generalizzare, eppure gli anni Novanta della musica sono stati affollati da ragni intrappolati nelle proprie ragnatele. Sono ragazzi nati negli anni Sessanta: Mark Linkous, Elliott Smith, Vic Chesnutt, per non parlare dei ragazzi di Seattle. Una specie di “spiderland”, direbbero gli Slint. Ragni dal talento cristallino e dalla disperazione cosmica, gente che avrebbe potuto scrivere una canzone alla cieca, pizzicando una chitarra fracassata e con un braccio legato dietro la schiena, ma che aveva un macigno insopportabile da portare sul cuore.

Come Mark Linkous appunto. Da piccolo voleva fuggire a tutti i costi dal suo destino: spalare carbone nelle miniere del West Virginia come suo padre e suo nonno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non seguire le loro orme e fu la musica a dargli la possibilità di scamparla. “I miei non capirono mai ciò che stavo facendo con quella chitarra – disse una volta – e lo accettarono solo dopo aver visto che non chiedevo più in prestito i soldi per l’affitto”. In realtà non fu solo la musica a fornire a Mark il passepartout per un altro mondo, lontano dalla noia. Aveva scoperto che droghe e alcol erano viatico per filarsela.

Ma facciamo un salto al 1995. Quando Linkous sceglie il nome Sparklehorse per la sua nuova vita in musica e debutta con Vivadixiesubmarinetransmissionplot,giàda tempo girava come una trottola fra New York e Los Angeles coi Dancing Hoods (due album e un EP fra il 1984 e il 1988). Poi ecco il ritorno in Virginia e, appunto, gli Spaklehorse. Così, in uno dei tanti giorni di scarsa lucidità, s’immagina in sella a uno “sparkle horse” (cavallo scintillante) su cui cavalcare in una realtà tutta sua. Disegnata per lui. “Vividixie” esce il 29 Agosto del 1995 edè il disco di un giovane uomo col sangue inquinato, ma con la vivida immaginazione di un piccolo grande genio.

Ciò che esce dalle sedici tracce è il nero più luccicante che c’è: non quello della polvere di carbone sulle mani e sulla faccia del padre e del nonno, ma qualcosa di più profondo, intimo e, appunto, scintillante, come quando il freddo tocca il caldo. Linkous si presenta a tutti per ciò che è: un uomo tormentato e un autore illuminato che, in un brano come Weird Sisters, riesce nell’impresa di trasformare anche il più pop dei “la la la” in un canto disperato, quello di chi s’aggrappa a un ramo per non essere risucchiato dalle sabbie mobili. L’album, con tutte le sue ombre, viene registrato a Richmond con la collaborazione decisiva di David Lowery dei Camper Van Beethoven (accreditato come David Charles). Il titolo – intraducibile – fa riferimento a un sogno fatto da Mark: “Era qualcosa in cui c’entravano il generale Lee e la Seconda Guerra Mondiale – raccontava in un’intervista – e poi c’erano anche un sottomarino e una vecchia band che ci suonava dentro con la musica confusa dal rumore del mare”.

In effetti c’è molto del galleggiamento fra le onde del sogno: nella canzone che apre il disco, Homecoming Queen, Mark fa scoppiettare la sua dolcissima chitarra acustica improvvisando una specie di ninna nanna in cui ammette amaramente: “La mia colonna vertebrale storta è sempre più fragile / ciò che una volta veniva su / dritto verso il sole / ora è a terra / e assorbe come una spugna”. Un incubo, in realtà. Il rapporto che Linkous ha con la dimensione acustica è spiegabile con l’unico aggettivo possibile: inevitabile. Perché gli arpeggi in Spirit Ditch, Gasoline Horseys o Most Beautiful Widow In Town sono come quei gesti che si fanno la mattina ancor prima di aprire gli occhi. La più bella vedova in città, dice Mark. Bellezza e morte fatte fluttuare nell’aria calda dell’estate, sì insieme, perché l’una non esclude l’altra. L’emozione è un grumo da sciogliere, le visioni pure. In Saturday la spinta vitale si avvita e si perde nella noia del pomeriggio: “Mi piacerebbe dirti come sto – sfiata Mark – ma probabilmente aspetterò fino a sabato”. In Cow, con quel banjo e quell’armonica che disegnano arabeschi folk, Linkous fa precipitare il folk in un incubo alla William Blake: “Santo delle chiatte, regina delle unghie / set di batteria scintillante / e omicidi di corvi”.

In Sad And Beautiful World Mark ci racconta tutto di sé, e di tutta quella generazione di ragni, ciondolanti nel cielo, meravigliosamente in alto, ma intrappolati:

A volte divento così triste
A volte mi fai davvero impazzire
È un mondo triste e meraviglioso
A volte proprio non mi va
A volte non so dire di no
È un mondo triste e meraviglioso
A volte i giorni corrono via veloci
A volte questo sembra sia l’ultimo.

È un mondo triste e meraviglioso. E a volte è proprio vero: Mark impazzisce con canzoni che schizzano elettriche e sporchissime come Rainmaker o Tears On Fresh Fruits, per poi tornare quasi subito nella stanza della malinconia più astratta. Un luogo di osservazione privilegiato che lo porta a essere esploratore di un fregio di emozioni intricato come una ragnatela. Ma nei giorni di “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” Linkous non sapeva ancora che ci sarebbe rimasto impigliato a morte.

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