
Una famiglia di plastilina, forse di cartapesta o di chissà quale altro materiale, pronta a sciogliersi davanti al fuoco alimentato dalla spazzatura che passa in televisione. La lattina di birra economica nelle mani del padre, la sigaretta nella bocca di lui e un’altra nella mano della madre, solo due delle centinaia che consumano ogni settimana. Le occhiaie profonde e alienate di lei. La borchia del cinturone di lui. Il sorriso forzato del figlio accovacciato ai loro piedi. E la TV accesa a fargli una lunga e asettica compagnia. E le stronzate che propina a intorpidirgli la mente. E sullo sfondo, non visibili ma chiaramente presenti, una serie di sottotesti che parlano delle botte che quasi all’ordine del giorno il marito assesta alla moglie, degli psicofarmaci di cui lei s’imbottisce, delle prostitute che lui carica sul suo pick-up, dei trans che ogni tanto si concede come diversivo, dei videogame e delle droghe con i quali il figlio si sta giocando gran parte dei neuroni, dei suoi pessimi risultati a scuola, di quei bulli che lo tormentano e di un futuro stroncato prima ancora che possa rendersene conto.
Il ritratto di una famiglia americana, insomma. Di una qualunque di quelle famiglie americane che dietro una socialmente richiesta facciata di perbenismo nascondono le stesse identiche, ripetitive e fallimentari vite, frutto di scelte sbagliate, sì, ma anche di uno Stato che fa poco per rimetterne insieme i cocci, specie a centinaia di chilometri di distanza dai lustrini di New York o Los Angeles. È da queste famiglie che Marilyn Manson (ai tempi del debutto sia pseudonimo di Brian Warner che nome della band stessa) parte per raccontare il lato oscuro dell’America, quello che in troppi fanno finta di non vedere e che nel 1994, anno in cui la band esordisce con Portrait Of An American Family, sta per prendere il definitivo sopravvento.
Brian Warner viene da una di quelle famiglie (virgola più, virgola meno), ma ha uno spiccato senso (auto)critico e un cervello che va a mille all’ora, così tanto da fargli credere di poter diventare una rockstar, al pari di una di quelle che ascoltava da ragazzino, di nascosto perché malviste dalla bacchettona Heritage Christian School di Canton, Ohio. La forma scelta è quella di un marcissimo rock industriale, punto d’incontro tra l’industrial dei Nine Inch Nails dell’amico Trent Reznor (che produce il disco e che pochi mesi prima aveva tirato fuori dal cilindro il masterpiece “The Downward Spiral”) e gli insegnamenti iconografici di capisaldi come Alice Cooper, Ozzy Osbourne e David Bowie. Il risultato non è eccelso, musicalmente parlando, perché la band di cui si circonda Warner non è di primissimo ordine e l’esperienza in fondo è ancora poca, ma è il primo pugno nello stomaco che l’America deve beccarsi da un Warner che di lì a poco sarebbe diventato il nemico pubblico numero uno dell’establishment a stelle e strisce.
Se la musica è acre, a tratti disturbante, le parole lo sono esponenzialmente di più: il linguaggio usato da Manson è volgare, totalmente e volutamente senza filtri, le droghe sono un giocattolo neanche fossero pongo, il sesso è ridotto a putrido passatempo per serate di bagordi, mentre i più evidenti punti di riferimento culturali vanno dal maestro David Lynch (in Wrapped In Plastic la connessione è con il suo “Twin Peaks”) al mostro Charles Manson, dal quale Warner ha preso la parte finale del suo moniker e cui ruba persino qualche verso (in My Monkey), passando per l’occultista Aleister Crowley (in Misery Machine, che varrà a Warner l’inizio di un lungo processo mediatico che lo vede ancora oggi tacciato di satanismo) e pellicole cult come “Ultimo tango a Parigi” e “Nuovo Punk Story”, dalle quali vengono ripresi alcuni estratti (nel perno del disco Cake And Sodomy). Manson ne ha per tutti senza preoccuparsi di risultare impopolare, perché prima che dentro gli altri guarda dentro se stesso. Il disco vende oltre due milioni di copie, gli adolescenti americani smettono di autocommiserarsi con l’autodistruzione del grunge e reagiscono a genitori, insegnanti e politici con le parole di quello che eleggono a loro portavoce.