
Tra le pieghe della discografia dei King Crimson esistono due dischi “perduti”, ignorati dal grande pubblico e spesso messi in ombra dagli altri colossi del Re Cremisi. Lizard è uno di questi: album-mondo, album-crepa, album-soglia. Troppo strano per essere amato al primo ascolto, troppo audace per essere confinato come semplice esperimento. È qui che Robert Fripp inizia davvero a plasmare i King Crimson a sua immagine e somiglianza: un costruttore di mondi sonori che elimina ogni forma di comfort.
Non c’è più traccia dei compagni di viaggio dell’esordio, fatta eccezione per Peter Sinfield, ancora tessitore di sogni e incubi nei testi. Al loro posto, nuove pedine a servizio della visione: Mel Collins con il suo sax e il flauto, che entra nell’ascoltatore su due livelli, razionale ed emotivo, Andy McCulloch che percuote come un giocoliere dal tocco leggero, Gordon Haskell alla voce e al basso, forse meno gladiatore di Lake, meno titano di Wetton, ma perfettamente calato in questo ambiente acquattato e terroso. Sì, terroso: se i primi quattro album dei Crimson sono allegorie degli elementi, “Lizard” è la Terra. Non quella fertile, piuttosto quella scura, cavernosa, dai vapori sulfurei.
La copertina da libro medievale, lettere miniate che raccontano le canzoni come vignette di un manoscritto fantastico. Un concept visivo che si sposa con la musica: “Lizard” è un puzzle da decifrare, un gioco di rimandi, un carnevale dell’assurdo. Dentro però, il fantasy viene ridotto al lumicino: è il jazz, con la sua libertà, a mordere le fondamenta del rock sinfonico che Fripp sembra voler segare una volta per tutte.
L’inizio con Cirkus ci fa subito capire che qui niente è innocuo: un luna park deformato, colori che ingannano, un senso di minaccia che pulsa dietro il sipario. Indoor Games e Happy Family seguono come quadri grotteschi dello stesso teatrino: frammenti di umorismo storto, sax vischiosi, pianoforti impazziti e una voce resa strumento, distante, filtrata, sempre un po’ sfuggente. A riportare un sospiro arriva Lady Of The Dancing Water: flauto che danza, chitarra acustica che avvolge, un momento di grazia sospeso, per ricordarci che i Crimson sanno ancora essere delicati, quando vogliono.
Ma è con l’omonima suite Lizard che il disco rivela tutto il suo carico immaginifico. L’apparizione di Jon Anderson spalanca le porte a un altro mondo, dove la maestosità orchestrale si sfalda in processione jazzata, dove il Mellotron diventa tempesta e i fiati si muovono come animali notturni. La musica prosegue tra battaglie di vetro e giostre infernali, fino a un finale in cui la chitarra di Fripp, distorta e radente, annuncia già il futuro della band: quello più ferino, elettrico, sanguigno.
In conclusione, “Lizard” è il figlio bizzarro della famiglia Crimson. L’album che nessuno capisce davvero al primo incontro, quello che non si lascia afferrare e non accetta paragoni. Non c’è nulla di simile, né prima né dopo: un disco che scava, che deride, che ti guarda mentre cerchi di interpretarlo, e non ti perdona se provi a semplificarlo. Forse è per questo che “Lizard” resta nascosto nelle retrovie: perché pretende ascoltatori disposti a sporcarsi di terra. Ma una volta entrati in questo labirinto di luci e ombre, il Cirkus non si può più dimenticare.