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Yield: i Pearl Jam fuori dal grunge

Quando nel 1996 i Pearl Jam pubblicano “No Code” la rottura con il loro recente passato appare evidente: del vecchio canovaccio usato dalla band per realizzare “Ten” nel 1991, “Vs.” nel 1993 e “Vitalogy” nel 1994 non c’è praticamente più traccia. In “No Code” brilla l’eco della recente collaborazione con Neil Young (cristallizzatasi nel ’95 con le due uscite “Mirror Ball” e “Merkin Ball”) e si fa sotto una certa ricerca quasi sperimentale nei suoni e negli arrangiamenti, caratteristiche che faranno − ingiustamente − del quarto disco dei Pearl Jam un po’ la pecora nera della loro discografia in quanto ad apprezzamento e riscontri meramente commerciali. Nei mesi successivi all’uscita di “No Code” il grunge − etichetta sotto la quale i Pearl Jam si erano sempre ritrovati un po’ a fatica − inizia a tirare definitivamente le cuoia: i Nirvana non ci sono più da un pezzo, gli Alice In Chains come se fosse, i Soundgarden si sciolgono e tutti gli altri cavalieri in flanella sembrano spaesati, in una scena che poco a poco sta smettendo di esserlo.

I Pearl Jam invece sono lì come un monolite e, nonostante i responsi non propriamente favorevoli raccolti da “No Code”, provano e riescono a trovare un modo per risollevarsi e riprendere in mano le redini della propria musica. Eddie Vedder vive un momento di stanca ed è proprio lui a chiedere ai compagni di mettersi maggiormente alla prova con la scrittura, in modo da sgravarlo della maggior parte del lavoro sulla musica per potersi concentrare al 100% sui testi dei nuovi brani. Il risultato è Yield, il primo lavoro davvero collettivo dei Pearl Jam in cui Stone Gossard, Jeff Ament, Mike McCready e Jack Irons si dividono la paternità di gran parte dei pezzi, lasciando piena libertà a Vedder dal punto di vista delle lyrics. Inevitabilmente il quinto lavoro in studio dei Pearl Jam finisce così per avere natura e ispirazione molto varia.

I Pearl Jam, che non avevano mai subito davvero le derivazioni punk rock che imperversavano nel resto della Seattle a cavallo fra ’80 e ’90, non sono però mai stati puliti e radio-friendly come in “Yield”, il tutto accompagnato dalla promozione più massiccia mai messa in piedi dalla band fino a quel momento, con Vedder e soci che ritornano a fare interviste, ritornano a spiegare pubblicamente la propria musica, ritornano persino a partorire videoclip, nello specifico quello animato di Do The Evolution, in cui mettono in campo una presa di posizione antibellica meno rabbiosa ma più ficcante del passato. Stessa cosa che avviene anche in Brain Of J. in cui un Vedder ormai maturo auspica cambiamenti radicali per l’intera umanità, un impegno che lo vedrà sempre più coinvolto negli anni a seguire.

Il meglio, però, arriva quando meno te l’aspetti: Wishlist, ad esempio, una dolcissima lista dei desideri tanto banale quanto evocativa, oppure il primo singolo estratto Given To Fly, uno di quegli anthem tipicamente pearljamiani condito dal meraviglioso e visionario testo scritto da Vedder, protagonista un uomo cui viene concesso di volare. Le ballad la fanno da padrone: c’è Low Light, con la sua ricerca di una luce in fondo al tunnel, e c’è All Those Yesterdays, col suo ripetuto mantra “it’s no crime to escape” che è un invito neanche tanto velato a farsi da parte per respirare un po’ quando le cose sembrano non girare per il verso giusto, stesso concetto elaborato anche nella splendida In Hiding. Insomma, è un Vedder sensibilmente più positivo e riflessivo quello di “Yield”, così come i Pearl Jam si dimostrano essere una band più ariosa rispetto ai precedenti lavori.

Da qui in poi i Pearl Jam saranno un’esperienza quasi del tutto nuova, un po’ come se “Yield” li avesse aiutati a scrollarsi di dosso ansie e insicurezze, come se la rabbia generazionale di Seattle fosse finalmente scivolata via alla stregua della muta di un serpente, come se quel disco di ripartenza fosse stato davvero un nuovo anno zero per la loro carriera e il loro approccio discografico. Per il tour di “Yield” arriva anche alla batteria Matt Cameron al posto di Jack Irons, un innesto inizialmente provvisorio che si trasformerà in definitivo e che contribuirà ad inaugurare questa nuova e duratura stagione dei Pearl Jam che li vede ancora oggi alfieri mondiali del rock da arena.

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