Killing In The Name
Rage Against The Machine
“Rage Against The Machine”, 1992
C’è confusione nei corridoi di BBC Radio. Uno strano brusio, frenetico e scoppiettante. I telefoni squillano all’impazzata, il via vai si fa febbrile. Qualcosa è successo. Fuori fa freddo, è febbraio. Il dj Bruno Brookes finisce la diretta, non sa nulla, ma sospetta qualcosa perché, dall’altra parte del vetro, lo sguardo dei fonici è cambiato: preoccupato, tirato, distratto. E infatti, quando esce dalla stanza, il suo produttore Simon Sadler gli va incontro con occhi atterriti. L’avevano fatta grossa: durante la Top 40 settimanale avevano erroneamente suonato la versione non censurata di Killing In The Name dei Rage Against The Machine: quella che contiene il devastante urlo finale di Zack De La Rocha. Diciassette ripetizioni dello strillo “Fuck you, I won’t do what you tell me” (“Fanculo, non farò quello che mi dite”). Un assalto alla diligenza, un urlo di resistenza, il messaggio guerrigliero della band più guerrigliera del momento. Il centralino della BBC va in tilt, anche il citofono della portineria. Proteste, lettere, indignazioni. Brookes e Sadler vengono sospesi dalla BBC, è il caos, ma è anche la prima battaglia vinta dal quartetto tutto pepe di Los Angeles. Perché i tempi sono maturi per la protesta, perché non si può più aspettare. Perché i RATM sono un mirabolante pentolone che ribolle rock‘n’roll, rap, politica, attivismo. In Killing In The Name le chitarre di Tom Morello sono molotov che volano a mezz’aria e le parole di Zack, messicano trapiantato nella città degli angeli, non usano metafore per puntare il dito sui colletti bianchi, sulla politica americana che, appunto, “uccide nel nome” di “cose” come religione, nazione e tutti gli altri emblemi tanto cari ai “bianchi eletti”. Una canzone che è materiale sensibile e che quando gira sul piatto lo fa tremare. La pancia vibra, il sangue pulsa sulle tempie. Brookes è solo il primo sacrificio sull’altare di una battaglia appena iniziata.