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Red House Painters: 30 anni di Down Colorful Hill

È il 14 Settembre del 1992 quando la 4AD dà alle stampe l’esordio di un quartetto di San Francisco, formatosi quattro anni prima, mettendo a segno l’ennesimo clamoroso centro per una già gloriosa etichetta. Anthony Koutsos, Jerry Vessel, Gorden Mack e soprattutto Mark Kozelek non faranno semplicemente la loro prima apparizione nel mondo: stabiliranno immediatamente un apice per un genere intero, lo slowcore, nella sua declinazione più nera: il sadcore. Redimendosi almeno in termini artistici dallo spettro della tossicodipendenza, dei tormenti emotivi, del suicidio. Da quel giorno in poi, insomma, ci sarà un prima e un dopo Red House Painters. Un prima e un dopo Down Colorful Hill.

Pochi rintocchi di chitarra, in assolvenza, precedono la voce quasi liturgica di Kozelek – nell’avvio della prima di sei autentiche gemme. “Like a friend you don’t want to see / Oldness comes with a smile”: 24 è un classico già al primo ascolto, nonché probabilmente una delle opening track più evocative e commoventi di sempre, chiusa da una coda che sarà spesso marchio di fabbrica non soltanto sotto la voce RHP. Segue, senza alcuna tregua emotiva, un altro cielo: Medecine Bottle. Una disperatissima lettera d’amore lunga quasi dieci minuti, sull’ineluttabilità di una relazione irrimediabilmente segnata da un malessere tatuato addosso come un anatema che tuttavia si vorrebbe sconfiggere: “Not wanting to die out here without you”, confessa il brano nei suoi pur brevissimi aliti di speranza. Più ariosa nell’arrangiamento, ma non per questo meno cupa nel contenuto, la successiva Down Colorful Hill: una marcetta funebre incentrata sulla sconfitta che si incattivisce, delicatamente, nel prolungato finale segnato da un carattere quasi post rock – che volontariamente fatica a esplodere per non tradire in alcun modo la propria natura.

Se Japanese To English, pezzo più breve del lotto, mantiene l’umore dell’album (“This dictonary never has a word / For the way I’m feeling”), Lord Kill The Pain è forse l’unica reale sorpresa, posta non a caso prima del gran finale. Una canzone che ritorna al futuro per ricordare nelle liriche la diversissima “Prayer To God” degli Shellac, nella composizione quasi i Neutral Milk Hotel di “Two Headed Boy”. Ma è solo un abile diversivo. Michael, col suo scheletro estremamente esile, è una lancinante lode all’amicizia e insieme una chiosa magistrale per un disco che, al netto di un culto impossibile da far esplodere, può annoverarsi senza alcun timore tra i più emotivamente potenti della storia della musica, cosiddetta, leggera. Una pietra miliare che attraverserà le generazioni e parlerà al cuore di chi avrà bisogno di un malinconico rifugio, di un letto che accompagni dolcemente un sonno d’inquietudine e futuro, di pioggia e mattoni.

La penna di Mark Kozelek partorirà, di lì in poi, un’indimenticata progenie di capolavori: partendo dal successivo e omonimo “Red House Painters” (conosciuto anche come “Rollercoaster”) sino alle splendide creazioni sotto il moniker Sun Kil Moon (“Ghosts Of The Great Highway”, “April”, “Benji”) o a nome proprio (“Perils From The Sea”). Al netto di una discografia spesso anche discutibilmente prolifica, il valore del cantautore – infine – non si discute. Tra il 2020 e il 2021 sarà investito da diverse accuse riguardanti atteggiamenti disgustosi, riprovevoli, imperdonabili. Quanto e se tali rivelazioni possano o debbano influenzare il giudizio rispetto alla percezione dell’opera: è un fatto strettamente personale e già abbastanza profondamente dibattuto per cercare ulteriore collocazione qui.

DATA D’USCITA: 14 Settembre 1992
ETICHETTA: 4AD

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