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The Velvet Underground: la lente di Todd Haynes sul fermento dei sixties a NYC

“La sensazione è quella di trovarmi in un cinema.
Il lungo fascio di luce attraversa il buio, intermittente e narrante.
Gli occhi fissi sullo schermo.
La pellicola è macchiata e striata.
Personalmente, sono dimentico, anonimo.
Sempre così quando si va al cinema.
È una droga, come dicono.”

– Lou Reed –

Quella dei Velvet Underground non è la prima storia in campo musicale trasposta su pellicola da Todd Haynes: in principio con il film “Velvet Goldmine” (1998) aveva raccontato la verosimile vicenda di un giornalista intento a ricostruire le travagliate peripezie di un cantante glam rock scomparso nel nulla, al fine di illustrare la scena e il movimento culturale che vi ruotavano intorno nella Londra anni Settanta, ispirandosi liberamente per la sua opera a personaggi come David Bowie, Iggy Pop, Mick Ronson e Lou Reed, mentre nel ben più complesso “I’m Not There” (2007) aveva scelto di narrare in maniera inusuale la vita – o meglio, le tante vite – di Bob Dylan, servendosi di ben sei attori diversi per interpretarlo in sette fasi metaforiche differenti.

In The Velvet Underground Haynes utilizza quanto sperimentato in precedenza dal punto di vista visuale, analitico, narrativo e soprattutto filosofico, per ricostruire pezzo per pezzo lo scenario che circondava John Cale, Lou Reed, Maureen Tucker, Sterling Morrison, Christa Päffgen in arte Nico, la cui figura era stata messa sotto la lente d’ingrandimento anche dalla regista Susanna Nicchiarelli in “Nico, 1988” (2017), Andy Warhol e tutti coloro che appartenevano al loro microcosmo, situato nella New York delle mille contraddizioni e fortemente anti-hippie, catturando completamente lo spettatore.

Ci sono il bianco e il nero totalizzanti e profondi delle fotografie, le sequenze dei video B&W in contrasto a quelle dai toni sgargianti e psych, e alcuni spot pubblicitari dell’epoca, cuciti in un montaggio che funge quasi da atto celebrativo verso la Factory di Warhol, reale punto di partenza del gruppo, di cui compare molto materiale anche inedito, il tutto alternato ai colori forti che riportano al presente con le parole dei sopravvissuti Cale e Tucker, oltre che di famigliari e collaboratori storici. Ogni sequenza di frame è ben congegnata e calibrata, accompagnata da passaggi sonori e brani musicali scelti con cura, il che implica uno studio attento e quasi maniacale, tratto tipico del regista statunitense.

Raccontare delle vite e delle personalità complesse come quelle che coinvolsero il progetto Velvet Underground non era affatto una missione semplice, nella fattispecie perché un documentario tradizionale tende solitamente ad appiattire e talvolta “banalizzare” alcuni aspetti delle storie raccontate, puntando quasi sempre tutto sulla figura più ingombrante, che in questo caso sarebbe stata certamente quella del tormentato Lou Reed.

“The Velvet Underground” invece è un’opera di un’accuratezza scrupolosa che regala il giusto spazio ad ogni personaggio, alleggerita al contempo da espedienti visuali efficaci e una narrazione dinamica, riuscendo nell’impresa di tenere il pubblico incollato allo schermo fino alla fine: non può mancare nel repertorio di chi ama la band o desideri semplicemente immergersi nelle atmosfere culturali di quel periodo per saperne di più, valutando quello che era un punto di vista in netta contrapposizione rispetto alla colorata controcultura hippie, sgretolatasi in men che non si dica, lasciando spazio ad un realismo a tratti brutale e perverso e a tratti sognante, come quello raccontato nelle loro canzoni.

Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.

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