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Soap&Skin @ Scala, Londra (11/04/2012)

L’aria è tiepida e Londra brulica come un qualsiasi pomeriggio infrasettimanale. Il caos sulla metropolitana e gli sguardi fuggevoli alla stazione di King’s Cross lasciano il posto ad una fila composta ed ordinata che attende l’apertura dei cancelli davanti allo Scala, storica venue multi-purpose allestita all’interno di un vecchio e suggestivo teatro. Alle 19:30, puntuali come il ciclo prima di un viaggio importante, si aprono le porte. L’atmosfera è cupa. Le luci soffuse. Una sensazione di oscurità generale pervade gli animi. Nulla è lasciato al caso, nemmeno la scelta della location. La prima sorpresa è che non ci sono posti a sedere: il concerto sarà standing. L’avevo immaginato diverso. Pensavo di abbandonarmi all’emozione di questo attesissimo live sprofondando in una poltroncina kitsch. Mi sbagliavo. Per fortuna, guadagnare la prima fila è un gioco da ragazzi. Ammiro il pianoforte a coda Yamaha ed il suo Macbook, un’accoppiata a dir poco dicotomica. E la dicotomia è il leit-motiv di questo concerto, di Anja Plaschg come donna, nonché di Soap&Skin come artista.

Le si perdona perfino l’entrata in scena alle 21.30 passate, orario quasi impensabile per i ritmi londinesi, soprattutto perché non c’è stato alcun opening act. Quando, finalmente, si spengono le luci e partono le note martellanti e soffocanti di Deathmental è facile presagire quale sarà l’andamento emotivo di questo concerto. Eccola sbucare da una porticina nella quale andrà a rintanarsi per più di una volta durante la performance. E’ spettrale, eppure bellissima. Il viso di una bambina, la pelle dal candore lunare e lo sguardo perso nel vuoto. E’ vestita di nero e marrone, con un camice che ricorda macabri episodi di cronaca.

Questa sera la ventunenne Anja Franziska Plaschg ha portato il suo piccolo villaggio sperduto della Stiria sul palco. La sua musica è un macigno sul petto capace di metterti le ali. E’ inquietante, turbolenta, impregnata di dolore. Sì, perché la sofferenza non è un valore aggiunto alle sue composizioni, ne è l’essenza più pura. Ad accompagnarla, una piccola orchestra formata da tre violini, violoncello, tromba e una seconda voce, come per aumentare l’aria fiabesca che già si respira. Il passaggio a Cradlesong è denso di emozione. E’ il primo pezzo in cui Anja siede al piano, diventando una cosa sola con esso. Si tocca il viso timidamente, quasi a volerlo coprire. Ogni suo movimento trapela uno spettro infinito di sensazioni. La prima dicotomia è quella tra la sua proverbiale assenza di empatia e la dolcezza del sorriso storto quando sibila un “Thank you”  sottecchi. Il  glaciale distacco da tutto ciò che la circonda, mentre si muove ossessivamente  camminando da una parte all’altra del palco, è una danza tra la vita e la morte.

A percorrere tutte le sfumature dell’oscurità  lieve che è la sua musica, in un pendolo tra strazio e poesia, ci pensano pezzi come Big Hand Nails Down, Extinguish Me, Cynthia o Thanatos. In una febbrile attesa del pezzo che verrà, il pubblico è incantato. Immobile. Senza fiato. Nel bel mezzo di un brano Anja si dirige verso il centro del palco, volta le spalle al pubblico, si inginocchia per terra e resta lì per interminabili secondi, fino alla fine del pezzo, momento in cui, come un direttore d’orchestra, balza in piedi e ne scandisce la fine a pugno chiuso, quasi a voler porre una fine tattile alla cacofonia spettrale che proviene dal suo computer.

Uno dei momenti più alti è senza ombra di dubbio rappresentato da Meltdown, cover di Clint Mansell: le luci si tingono di rosso, Anja si scaglia con violenza sui tasti del pianoforte, urla e si lascia andare in un crescendo di disperazione inarrestabile. Puro Sturm und Drang, Tempesta ed Impeto. Un cambiamento di registro si ha con Voyage Voyage, cover della canzonetta disco francese anni ’80 dei Desireless, e subito dopo con Vater, il pezzo più emozionante dell’intera discografia di Soap&Skin, l’unico cantato in tedesco, sua lingua madre, dedicato al padre recentemente scomparso. La canzone è una creazione perfettamente hegeliana: una tesi introduttiva malinconica e dal sapore chopiniano; un’antitesi dissonante, claustrofobica e senza speranza e una sintesi trionfale, una sorta di riappacificazione con se stessa, coadiuvata dall’orchestra.

Il momento di autentico sgomento emotivo arriva con Marche Funèbre. Anja abbandona il piano, l’impermeabile, la sciarpa, i fronzoli e comincia ad alternare una danza sensuale e macabra al tempo stesso ad una performance  vocale da brivido. Eros e Thanatos all’ennesima potenza. Qualcuno ha scritto che questa canzone è l’emozione più grande che si possa provare sentendo un pezzo dal vivo e non posso dargli torto. Non è casuale nemmeno la scelta dell’encore, Pale Blue Eyes, cover di Nico, già precedentemente interpretata da Soap&Skin. Ed il concerto finisce così com’è cominciato, in punta di piedi. Anja ringrazia, si inchina leggermente e fugge, chiudendo la porta dietro di sé.

SETLIST: Deathmental – Cradlesong – Big Hand Nails Down – Cynthia – Extinguish Me – Surrounded – Pray – Thanatos – Fail Foliage – Meltdown – Voyage Voyage – Lost – The Sun – Vater – Mr Gaunt PT 1000 – Marche Funèbre – Sugarbread —encore— Pale Blue Eyes

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