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White Lies – 18/02/2010 – Roma – Piper Club

Se una band indie gode di una certa popolarità e decide di suonare in Italia, è davvero raro che si spinga più a sud di Bologna: basterebbe solo questo a giustificare il sold out dei White Lies al Piper di Roma. D’altronde la capitale non dispone di adeguate strutture per ospitare un concerto rock di medie dimensioni, così si deve ripiegare su un locale che in genere ospita tutt’altro tipo di Serate (il giorno dopo è in programma Gigi D’Agostino…): non a caso una semplice birra costa 10 euro, e buona parte del pubblico sta lì solo perché in questo freddo giovedì romano non c’era altro da fare. Fortunatamente questi cattivi pensieri scompaiono quando si inizia a sentire un po’ di buona musica: i romani Klimt 1918, col loro brit-rock che strizza l’occhio allo shoegaze (ed in particolare agli Swervedriver) sono una piacevolissima sorpresa. Ma le attese sono tutte per i White Lies, e non vengono affatto tradite. Harry McVeigh ha notevoli problemi alla gola (e se ne scusa mortificato col pubblico) ma la qualità del live non ne viene particolarmente intaccata. La ricetta è semplice, con composizioni che risentono parecchio dell’ondata indie alla quale abbiamo assistito in quest’ultimo decennio ed una voce e dei testi che hanno un unico grande riferimento: Ian Curtis. Nulla di nuovo sotto il sole, ma sta proprio qui il difficile. Se si pecca palesemente di mancanza di originalità e d’innovazione, per strappare la sufficienza devi disporre di canzoni dalla elevata qualità compositiva: per fortuna dei White Lies, nella scaletta della serata i momenti alti sono frequenti. La trascinante To Lose My Life non a caso è stata un successo radiofonico persino in Italia (probabilmente i disastrosi Franz Ferdinand odierni pagherebbero oro per un singolo del genere), mentre Farewell To The Fairground con il suo splendido finale risulta essere per chi vi scrive una delle canzoni più convincenti dell’intero 2009. E’ indubbio che vi sia una preoccupante somiglianza tra alcune canzoni, ma d’altronde non è un caso se per una band il secondo ed il terzo album risultano sempre i più difficili. Problemi futuri, insomma. Per ora va bene così, anche perché le introspettive Unfinished Business ed E.S.T. contribuiscono a mantenere alta l’asticella della qualità. Finito il live si va via soddisfatti, con la speranza che in futuro a Roma (e nel centro-sud in generale) possano esserci più serate di questo tipo: il pubblico c’è, il coraggio dei promoter locali spesso no.


(“Death” live @ Piper Club, Roma)

A cura di Karol Firrincieli

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