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Blur – The Magic Whip

themagicwhipLa telenovela dei Blur è una delle telenovelas più amate dagli inglesi. Certo, c’è Coronation Street, in onda da 55 anni e c’è EastEnders, che va in prima serata la sera di Natale sulla BBC (e ogni inglese, pur ammettendo che sia “rubbish”, sta attaccato allo schermo a seguire lo specialone, a vedere se tizio ha ammazzato tizia o tradito caia). Ma le vicende di Albarn, Coxon, James e Rowntree hanno sempre avuto un gusto speciale. Tradimenti, album solisti, carriere separate, riconciliazioni, ammissioni, droga, alcool, tour mondiali… non manca niente.

Riassunto delle puntate precedenti: Graham Coxon, uno dei guitar hero del britpop e artefice non riconosciuto del riconoscibile sound dei Blur (sia di quello britpop, sia di quello smaccatamente filo americano di “Blur”, sia del più sperimentale “13”), va in disintossicazione per l’alcolismo. Al suo ritorno la band non lo vuole più. Gli inglesi non amano il confronto, specialmente i londinesi. Se qualcosa va male, ci si allontana e ci si gira dall’altra parte. In silenzio. Si macera rabbia e si fanno battutine sarcastiche o mezze ammissioni (“What am I to do / Someone here is really not happy / Put myself on a line / It seems I never got through to you”, da “Sweet Song”, su “Think Tank”).

I Blur, dopo il tentativo mal riuscito di “Think Tank” (album del 2003 dalle cui session Coxon fu allontanato), si sciolgono. Graham procede per la sua strada: carriera solista e numerosi album di buon livello, in molte occasioni accompagnato da Stephen Street, produttore di quei dischi che fecero grandi i Blur. Alex James, playboy e viveur, diventa una personalità importante nel mondo della cucina, produce formaggi, conduce trasmissioni alla radio, appare in documentari di alto spessore. David Rowntree passa alla politica, perdendo un numero consecutivo di elezioni davvero ragguardevole.

E Albarn… Albarn resta Albarn. Control freak come pochi, da solo finalmente ha la possibilità di zittire chiunque non faccia come voglia lui, senza sentirsi dire che si trova in una band democratica e che le decisioni si prendono insieme. E, a dirla tutta, i risultati sono stati più che egregi. Ottimi gli album con i Gorillaz, interessante il progetto The Good, The Bad And The Queen, valida la ricerca musicale in Mali: Albarn si è imposto come una fortissima realtà musicale anche da solo. La telenovela sembrava diretta verso un’amara conclusione, ma, a sorpresa, i Blur si riuniscono, prima per due concerti ad Hyde Park nel 2009, poi per un tour.

Flash forward: Hong Kong 2013, la band deve partecipare ad un festival in Giappone, cancellato per non meglio specificati motivi. Si ritrovano così con cinque giorni da buttar via nel “porto profumato”, giorni che trascorrono registrando demo sul tablet di Damon Albarn. Ma Albarn dirà in seguito che l’album non sarebbe mai uscito, perché lui non aveva il tempo di scrivere dei testi né di completarlo in studio. Bit of a cunt, innit?

Torniamo indietro un attimo: questa non è la prima volta che succede. William Orbit aveva cominciato a lavorare con loro nel 2012, ma il progetto era stato bloccato da Albarn (cosa che portò Orbit a proferire parole poco lusinghiere nei confronti dell’ex biondino figo che campeggiava nei poster delle ragazzine negli anni ‘90) nonostante alcune tracce inedite fossero state registrate, non ultima “Under The Westway”, canzone ufficiale delle Olimpiadi di Londra.

Con Albarn in tour a pubblicizzare il suo primo vero e proprio album solista, “Everyday Robots”, Coxon non si arrende e va allo Studio 13 a lavorare ai demo con Stephen Street. Bloody long story short, il lavoro porta i frutti sperati e a Febbraio di quest’anno arriva l’inaspettato annuncio: habemus album! S’intitola The Magic Whip.

Se qualcuno si aspettava un ritorno a “Parklife” o che si ripartisse da “13”, dei Blur non ha capito un’amata fava. Accadrà forse che una reunion degli Oasis porterà una scopiazzatura di sé stessi (dopo aver scopiazzato il resto del mondo), ma Albarn, Coxon e soci non sono i fratelli Gallagher. La telenovela, la pubblicità, arriva da ciò che realmente sono, non da un’immagine che intendono proiettare. E sono sempre stati onesti, e, ancora, sono cresciuti col proprio pubblico. Ergo, non sarebbe mai stato possibile un nuovo “Parklife”, non avrebbero saputo farlo.

Invece tutte le influenze elettroniche dell’Albarn solista confluiscono quasi naturalmente nel nuovo sound, con Coxon in prima e James e Rowntree in seconda battuta a dare un senso compiuto alle esili trame tessute, un senso assolutamente naturale, come se non potesse esserci altra soluzione per queste canzoni. E se è vero che non suona particolarmente come i Blur che siamo abituati a conoscere, fatta eccezione per i primi due estratti, l’apripista Lonesome Street e Go Out, le uniche nelle quali si riscontra il suono “classico” della chitarra di Coxon, è anche vero che questa evoluzione risulta estremamente riuscita, seppur malinconica come non mai.

Se ogni album dei Blur pubblicato sinora ha avuto un suono monumentalmente unitario, qui si alternano classici pezzi chitarristici come i due citati singoli e la delicata Ong Ong, pezzi prettamente elettronici come Thought I Was A Spaceman o New World Towers e pezzi che sembrano qualcosa di nuovo, come l’highlight assoluto dell’album My Terracotta Heart. Un beat lento, pesante, all’interno del quale si insinuano la chitarra di Coxon, estremamente melodiosa piuttosto che tagliente come al solito, e il basso fluido di Alex James, nettamente influenzato dal dub (che Albarn aveva esplorato nell’album di remix dei Gorillaz, “Laika Come Home” e che ritroviamo nella già citata “Ong Ong”).

Albarn in falsetto completa l’opera, con un testo che sembra fare velatamente riferimento alla situazione con i fratelli/colleghi (“Seemed like a breath of fresh air back in the summertime / When we were more like brothers, that was years ago”) e alle disavventure passate (“And when we fly tomorrow over the Java seas / And my younger man will be there with me / Cause they remind me of swimming out too far one day / When the coral was gone, but I didn’t care anyway”). Pezzo migliore di questo “The Magic Whip” nonché fra I migliori dei Blur in assoluto.

Servono molto, molto tempo e tanta attenzione per capire la bellezza di quest’album. Non sono più tempi da “Country House” o “There’s No Other Way”. Ma neanche da “Tender” o “Beetlebum”. È una band diversa, sono persone diverse. Ma lentamente la sua malinconia, perfettamente disegnata dai neon da metropoli orientale dell’artwork, si insinua nelle ossa e rivela sé stessa in tutta la sua profondità.

Bentornati, Blur. E speriamo that we’re not losing you again, perche i nostri terracotta hearts si spezzerebbero di nuovo.

(2015, Parlophone)

01 Lonesome Street
02 New World Towers
03 Go Out
04 Ice Cream Man
05 Thought I Was A Spaceman
06 I Broadcast
07 My Terracotta Heart
08 There Are Too Many Of Us
09 Ghost Ship
10 Pyongyang
11 Ong Ong
12 Mirrorball

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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