[adinserter block="3"]
Home RECENSIONI Idles – Tangk

Idles – Tangk

“No god, no king, I said, love is the thing”. La conosciamo ormai tutti questa frase, verso del refrain di Grace, uno dei singoli che ha anticipato l’uscita di Tangk, il quinto lavoro in studio degli Idles. La conoscevamo tutti già prima che il disco vedesse la luce, ma potevamo solo immaginare quanto poi, nella sostanza, avrebbe rappresentato non solo l’album cui appartiene ma anche l’intero percorso artistico della formazione inglese. Che concettualmente resta lontana da ogni sudditanza umana, che sia essa rivolta a una divinità o al regnante di turno (compresi politici e politicanti, va da sé), se non all’amore. Perché l’amore è tutto, l’amore è ogni cosa, è ciò che va perseguito ed è con ogni probabilità l’unica cosa che merita di essere perseguita senza sosta e senza cedere alla stanchezza. Su questo concetto Joe Talbot ci gira intorno da un’intera carriera, ma se prima la rabbia verso le storture della società moderna prendeva il sopravvento, vuoi per gioventù, vuoi per una carnale urgenza espressiva, in “Tangk” il concetto diventa fondante e fa il paio con la strada sonora intrapresa dai ragazzi di Bristol da un paio di album a questa parte. Come se, alla fine di una lunga e tortuosa battaglia interiore, a emergere fosse stata l’unica cosa davvero curativa.

Già con “Crawler” (2021) gli Idles avevano iniziato a mettere in campo un massiccio uso dell’elettronica e delle tastiere, rallentando in parte i ritmi forsennati dei primi passaggi della loro discografia per farsi a tratti più riflessivi. Con “Tangk” questo processo continua inarrestabile e, complice anche la co-produzione (insieme ancora una volta al chitarrista Mark Bowen e a Kenny Beats) affidata al “sesto Radiohead” Nigel Godrich, che si sente e non poco, il risultato è ancora più orientato verso un rock (in senso lato) che guarda al presente e al futuro, un post punk ridotto all’osso e rielaborato, un qualcosa che trascende i generi e va dritto per una strada di certo meno intellegibile ma anche più accattivante.

L’introduzione affidata a IDEA 01 usa un pianoforte radioheadiano (ed eccolo subito qui Godrich) per rubare completamente la scena alle chitarre, segno di ciò che per larga parte avverrà nel corso dell’intero disco. Eppure la seguente Gift Horse lancia quel “Look at him go” su un tappetto distortissimo, con Talbot che a primo impatto sembra rivolgersi alla recente successione sul trono britannico (“Fuck the king, he ain’t the king, she’s the king”), ma poi a leggere bene quel Re altri non è se non la sua bimba (“My baby is beautiful / All is love and love is all”). Il beat ossessivo di Pop Pop Pop, tanto minimale quanto ansiogeno, si fregia di una parvenza hiphopeggiante che recita un ruolo fondamentale nella stesura del pezzo, mentre l’accoppiata Roy/A Gospel (caveiana la prima, quasi folkeggiante la seconda), vede Talbot farsi struggente nella sue invocazioni come mai gli era successo − o aveva deciso gli succedesse − in precedenza.

Il singolo Dancer, complice la collaborazione col marchio LCD Soundsystem, lancia gli Idles nell’episodio più scanzonato del lotto, con quell’invocazione finale che è un invito a un’euforia che, in realtà, non è affatto di casa in questo disco (“I’m a dancer / You’re a dancer / Let’s dance”); Hall & Oates è il gancio più grosso che gli Idles tendono ai se stessi di qualche anno fa, quantomeno musicalmente visto il suo incedere tiratissimo, così come Gratitude col suo garage sbilenco che arranca in un pogo soffocato e gli abrasivi tribalismi di Jungle (nomen omen). In chiusura l’andamento catacombale di Monolith, che culmina in un sax da oscuri titoli di coda. E nel mezzo c’è poi Grace, che abbiamo già citato in apertura e che è sotto tutti i punti di vista il vessillo della tensione palpabile cavalcata da “Tangk”, candidandosi già adesso al titolo di miglior pezzo della produzione marcata Idles.

Non è un disco gentile “Tangk”, è ancora in tutto e per tutto un disco degli Idles per come li abbiamo conosciuti, quindi ruvido, spesso brutale nella sua schiettezza, per certi versi anche violento, solo che cambia il modo in cui Talbot e gli altri danno sfogo ai loro pensieri, cambia una forma che adesso è più cadenzata e proprio per questo risulta addirittura più incisiva che in passato. Perché ti consente di ascoltarli meglio, smetti di dimenarti e li ascolti, anzi li senti, le senti le parole di Joe, le risenti ancora e cavolo se ha ragione quando riduce tutto a quanto è importante la ricerca della felicità, quanto lo sono le relazioni umane, fossero sua figlia, il padre o il migliore amico, suoi, nostri, di ciascuno di noi. Ecco, gli Idles hanno forse smesso di farsi (solo) ascoltare e hanno iniziato (anche) a farsi sentire. Un lavoro perfetto su tutta la linea di una band in questo preciso momento fondamentale.

2024 | Partisan

IN BREVE: 4,5/5

Nessun commento

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Exit mobile version