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Nine Inch Nails – Bad Witch

Nel suo lavoro Trent Reznor è un assoluto maniaco del controllo. Non gli va che qualcuno gli dica cosa deve o non deve fare, non gli va di condividere le decisioni e non gli va nemmeno che chicchessia, fosse un colosso come Spotify o la webzine più “in” del pianeta, inquadri il suo lavoro sotto questa o quella etichetta.

E quindi ha deciso che Bad Witch, sei tracce per mezz’ora di musica, non è un cazzo di EP, sebbene egli stesso avesse promesso una trilogia di EP, iniziata con “Not The Actual Events” (2016) e proseguita con “Add Violence” (2017). Sì, Trent s’è rotto le palle di vedere le sue produzioni derubricate fra le uscite minori solo perché più brevi di altre, a maggior ragione oggi che la musica (e chi meglio di lui può saperlo) è diventata liquida e informe, priva di confini e impossibile da incastrare nei vetusti dettami di una discografia che ha rischiato seriamente di tirare le cuoia.

A prescindere dal formato, che comunque è ufficialmente quello di un long playing, “Bad Witch” può ritenersi il completamento del trittico di uscite di cui si diceva, oltre che l’ennesima tappa di Reznor in quell’abisso di depravazione, corruzione morale e disonestà che è l’umanità intera. L’approccio, quantomeno all’inizio, è lo stesso già palesato in “Not The Actual Events”, ovvero distante da “Hesitation Marks” (2013) e “Add Violence” e più vicino alle abrasioni industriali dei nineties: Shit Mirror parte così, tra distorsioni e beat martellanti che proseguono dritti nella successiva Ahead Of Ourselves, un marchio di fabbrica o giù di lì.

Ma il disco cambia repentinamente e lo fa con una strumentale di quasi cinque minuti, Play The Goddamned Part: il piglio jazzato, il sax che s’innesta tra i suoni sintetici rappresentando al contempo la novità più grossa nel sound dei Nine Inch Nails da tanti anni a questa parte e, soprattutto, il gancio con quell’esempio che è stato David Bowie per Reznor. Non ci vuole un orecchio sopraffino per accorgersi di come il testamento artistico del Duca Bianco, “Blackstar” (2016), sia ben presente qui così come lo è nel primo estratto God Break Down The Door.

Poi tocca alla seconda strumentale del lotto, I’m Not From This World, in cui ritorna l’essenza ambient della prima ma ancor più cupa, con il sax sostituito da suoni sintetici e sferragliamenti lontani. Il finale è tutto per gli otto minuti scarsi di Over And Out: il fantasma dell’ultimo Bowie assale ancora gli incubi di Reznor, che stavolta ne riprende in qualche modo l’approccio vocale ripetendo il verso “Time is running out / I don’t know what I’m waiting for”, una sorta di mantra da apocalisse affrontata con eleganza e consapevolezza.

Alla fine della giostra, di questo “Bad Witch” ma anche ripensando a “Not The Actual Events” e “Add Violence”, la sensazione è che Reznor abbia voluto inaugurare una nuova fase della sua storia di compositore, quella in cui il messaggio, qualsiasi esso sia, debba andare dritto al sodo, isolato dal resto in modo da risultarne esaltato e non confuso. La brevità delle uscite, di conseguenza, potrebbe essere solo l’aspetto più evidente della cosa, ennesimo adattamento di un genio multiforme che ha anticipato spesso i tempi.

(2018, The Null Corporation)

01 Shit Mirror
02 Ahead Of Ouselves
03 Play The Goddamned Part
04 God Break Down The Door
05 I’m Not From This World
06 Over And Out

IN BREVE: 4/5

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