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Placebo – Never Let Me Go

Nove anni, praticamente una vita. I Placebo di “Loud Like Love” (uscito nel 2013) erano una “cosa”, oggi il nuovo Never Let Me Go rappresenta plasticamente un’altra versione della band. Forse non per stile, ma di certo per posizionamento. Ma cos’è successo in questi nove anni? Intanto il trio è diventato un duo (Molko e Olsdal), con l’addio al batterista Steve Forrest. E poi che il marchio Placebo ha girato il mondo con ristampe, album dal vivo, anniversari e live ad ogni latitudine, diventando emblema di un rock consumato dal di dentro come un albero morto. Più che una band, un brand.

Con la voce di Brian Molko, da misteriosa che era, tramutata in una specie di stilema. Così i suoi incubi e le sue oscurità: sdoganati nel gioco della citazione. “Mi sentivo come una scimmia che esibisce in giro per il mondo” – ha detto auto-criticamente Brian – “Avvertivo che ci stavamo spegnendo lentamente” – ha aggiunto Stefan Olsdal. La reazione a tutto questo è un disco estremamente lucido e compatto, sobrio si potrebbe dire. Ed è una metafora neanche troppo ardita visto che uno dei fantasmi di Molko, l’alcolismo (assieme alle droghe, certo), è stata la stella cometa folle che ne ha indicato la via per anni.

La versione ripulita di Brian, con un look baffuto quasi da cowboy, racconta anche la direzione mainstream dei Placebo, ma piena di cicatrici del passato: praticamente per filo e per segno il senso di Forever Chemicals, la canzone che apre il disco. “Never Let Me Go” dunque è un album costruito come un classico Placebo, senza fini del mondo, è vero, ma con un forte senso del rimpianto. Ne è affresco Happy Birthday In The Sky, canzone diario di reduci e caduti delle droghe. Segnatevi alcuni piacevoli cambi passo: i violini che sferzano The Prodigal e il pianoforte che strugge il finale di Surrounded By Spies. Poi ci sono Try Better Nex Time e Twin Demons, due pezzi rimasti sotto il sedile della Delorian e riportati al presente come almanacchi vincenti (ma col trucchetto), esattamente come Beautiful James, con la sua elettronica forse un po’ stanca.

Tredici canzoni, nessuna brutta. Canzoni comfort zone. Canzoni deja-vù. Che non sono un merito per un gruppo che si presentò, lanciati in orbita da Bowie, come scossa di fine secolo, ma che non bluffano sulla natura di chi le fa e questo, sì, è un merito. Per anni si è pensato a quello che Brian Molko, col suo talento, la sua voce, il suo immaginario, la sua follia, il suo argento, i suoi coltelli, i suoi cuori spezzati, gli artigli con lo smalto, la luna a favore, quella storta, il peso del mondo, la leggerezza di scalare un grattacielo a piedi nudi… poteva diventare e non è diventato.

Ma a questo punto, oggi, è anche una questione di sopravvivenza. Sopravvivenza che, dopo nove anni di viaggi alla ricerca di qualcosa, e in un contesto di burattini finto-sconquassati che ci martellano dai loro profili verificati, festeggiamo con piacere facendo uno strappo alla regola e ingollando qualcosa di forte. Alla salute di Brian Molko.

(2022, SO / Elevator Lady)

01 Forever Chemicals
02 Beautiful James
03 Hugz
04 Happy Birthday In The Sky
05 The Prodigal
06 Surrounded By Spies
07 Try Better Next Time
08 Sad White Reggae
09 Twin Demons
10 Chemtrails
11 This Is What You Wanted
12 Went Missing
13 Fix Yourself

IN BREVE: 3/5

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