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Uzeda – Quocumque Jeceris Stabit

Gli spinotti che si agganciano alla corrente emettono lo stesso rumore da sempre. È un clac sordo cui segue un leggero sbalzo di tensione. L’elettricità non ha mai abbandonato il rock. Ne ha accompagnato fedele il percorso da quando c’è, e con lei i suoi rituali, i suoi fruscii, il suo odore. Non c’è blip digitale che tenga, quando un gruppo come gli Uzeda si chiude in sala e attacca i suoi spinotti. Non c’è nulla che può sintetizzare lo strepito, lo stridere, il riverbero, la deflagrazione, il clangore.

Le chitarre sudano strette tra le mani, sudano le pelli, gocce di anidride carbonica, il microfono attira il vapore che arriva dai pori delle guance. Un bagno di sensi. Gli Uzeda tornano a tredici anni dal precedente “Stella” (2006) perché, per discendere in un pozzo simile, devi essere pronto. La musica per loro non è roba da abbozzare nei tempi morti, è una pioggia da incanalare, è pioggia di terra lavica da raccogliere per farne mattone. Ecco, Quocumque Jeceris Stabit, è il frutto di questa lunghissima fase di raccolta. Un titolo che è un’evocazione perché, se c’è un elemento scelto dai catanesi da farne concetto, questa volta è il mare. Un titolo che rievoca l’isola di Man, la Sicilia, il mito di Polifemo. La roccia che piomba in mare. La pietra che incontra l’acqua.

La traduzione dal latino è “ovunque tu lo lanci, resisterà”. E il disco racconta questa resistenza. La resistenza al tempo (l’anno scorso la band ha festeggiato i suoi primi trent’anni), alla bufera. Vedi Deep Blue Sea, una canzone spigolosa come un sasso, pesante, ma che sguscia e piroetta leggerissima mentre affonda nell’abisso. Giovanna Cacciola è una sirena disperata che canta la libertà. La libertà degli uomini a sopravvivere alle proprie tempeste. Il mare puzza di salsedine e sangue. Le parole affogano in pochi minuti. La politica è una tanica di benzina riversata in acqua. Giovanna urla, si agita.

È finito il tempo di stare zitti. E infatti gli Uzeda costruiscono canzoni che crocchiano, vivono. Come Red che è una compagna. Come Nothing But The Stars in cui il basso di Gulisano molleggia e la chitarra di Tilotta sputacchia. Tutto è spinto dentro in sala di incisione: i crepitii, le vibrazioni, i rulli di Oliveri, le note che spruzzano e anche Giovanna che schiarisce la voce all’imbocco di Speaker’s Corner (come il russare di Agostino in “The Milky Away” in “Different Section Wires” del 1998).

La scuola è nota, è quella di Steve Albini. Steve ha voluto gli Uzeda nella sua master class per ingegneri del suono in provincia di Verona. E lì, durante una giornata di novembre, è nato “Quocumque Jeceris Stabit”, tra musicisti con musicisti. In presa diretta, senza artifizi. Tutto con uno spinotto che si aggancia alla corrente. Che fa lo stesso suono. Come tredici anni fa. Come sempre. E da lì si riparte.

(2019, Overdrive / Temporary Residence)

01 Soap
02 Deep Blue Sea
03 Speaker’s Corner
04 Mistakes
05 Nothing But The Stars
06 Red
07 Blind
08 The Preacher’s Tale

IN BREVE: 4/5

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