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Surfer Rosa: lo scherzo furiosamente serio dei Pixies

Quando, due anni prima di pubblicare Surfer Rosa, Charles Thompson (aka Black Francis) e Joey Santiago decidono di lasciare Puerto Rico per formare una band a Boston, lo fanno già con le migliori intenzioni. Quando, tramite annuncio, cercano un bassista “appassionato di Hüsker Dü e Peter Paul & Mary” – sanno già in che direzione stanno andando. Non sanno ancora, chiaramente, che a quell’annuncio risponderà Kim Deal. E non sanno nemmeno che la stessa, Dio benedica le giuste amicizie, porterà in formazione anche David Lovering, alla batteria. Se gli astri decidono di allinearsi, d’altronde, c’è poco da fare. Chiedete a Ivo Watts-Russel. Chiedete al patron della 4AD se avrebbe mai scommesso, anche un centesimo in più, sul fatto che quell’investimento da diecimila dollari, circa, sarebbe diventato il disco più noto della sua gloriosa etichetta. No way.

È il dicembre del 1987 quando i Pixies, reduci dal vivissimo EP “Come On Pilgrim”, tornano in studio per esordire sulla lunga distanza. Li produce uno scettico, ma chirurgico, Steve Albini. Hanno dieci giorni di tempo in totale. “Ce ne sarebbero bastati sette” – avrebbe poi dichiarato, il vecchio Steve, insieme ad altre considerazioni non proprio lusinghiere. Il gruppo si definisce noise pop. Una roba senza senso, per l’epoca. Un matrimonio apparentemente impossibile che trova però, nella natura aggressivamente naif dei quattro, miracolosamente, uno sbocco più che naturale. Ma come? Ascoltare Bone Machine per credere. La partenza, infatti, è già un futuro cavallo da battaglia. Comincia come una sortita dei Pere Ubu in territorio garage, col suo spoken word teatralmente cattivo, per decelerare in un ritornello brevissimo, scanzonato e quasi mieloso. Ed esplodere infine, continuativamente, in una nevrotica scivolata hardcore.

Da questa descrizione, si spera, è già comprensibile la peculiare rivoluzione portata in campo dai Nostri. Maestri del quite and loud, del serio che diventa faceto se non addirittura sberleffo, del matrimonio fra melodie innocue e accelerazioni violente, abrasive, scorbutiche. Si prenda l’epilessia screamo di Something Against You, l’idiozia punk dell’esilarante Broken Face o anche, soprattutto, la fake ballad Gigantic. Esempio calzante del gusto per il dirottamento che schianta, letteralmente, i versetti della Deal su uno spartitraffico distorto. Non è da meno il capolavoro River Euphrates, ben più che un intermezzo fra i due episodi più noti dell’opera. Il secondo, anzi, vero e proprio stendardo del Pixies pensiero: Where Is My Mind?, una specie di strano sogno fatto da Neil Young. L’approccio live in the room di Albini sembra cucito su misura per le non-esigenze delle fate, ne amplifica linearmente tutte le spigolosità e le stramberie, dando vita a un risultato unico. 

La seconda metà del long play non ha, ovviamente, nulla da invidiare alla prima. Dopo la fangosa Cactus, l’uno-due Tony’s Theme/Oh My Golly! è il momento più adrenalinico del pacchetto, Vamos un trip acido in spanglish, I’m Amazed una dichiarazione d’amore a Gould-Norton-Heart. Si chiude con Brick Is Red, una specie di proto-“Here Comes Your Man”, che verrà data alle stampe di lì a un anno con la seconda pietra miliare della squadra, forse, più vincente di fine anni ’80.

Con “Surfer Rosa”, i Pixies piazzano una mina completamente inattesa e subitamente deflagrata nel decennio successivo, tracciando più che una guida per molta futura elettricità. Kurt Cobain, loro fan probabilmente più noto, ne seguirà i dettami senza mai nasconderlo, ammettendone spesso l’influenza sulla stesura – fra le altre – di “Smells Like Teen Spirit”. Non sarà il solo pubblico endorsement. Nel 2023, sebbene i nuovi Pixies non abbiano, su formato rigido, rinvigorito i fasti del quinquennio ’87-’91, riempiono ancora arene in estasi, fondamentalmente, per quella primissima manciata di indimenticabili canzoni. Trentacinque inverni di mezzo, ma è proprio il finale di “Fight Club”, proprio quella roba lì: ogni volta. Quel tenersi per mano mentre il mondo collassa. Uno scherzo terribilmente vero ma soprattutto, in definitiva, furiosamente serio.

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