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Alice In Chains: 30 anni di Facelift

È indubbio come il 1991 debba essere considerato l’anno cruciale del grunge: i Nirvana uscivano con “Nevermind”, i Pearl Jam con “Ten”, i Soundgarden con “Badmotorfinger” e, tutt’intorno, era un’inarrestabile marea di altri dischi che gravitavano su Seattle e su quel sound che avrebbe cambiato la storia del rock. Ma se quegli album ebbero l’attenzione che hanno avuto, se quelle band strapparono contratti major uscendo da una dimensione prettamente indipendente, lo si deve in sostanziosa parte a ciò che fecero l’anno precedente gli Alice In Chains.

Quando nell’Agosto del ’90 gli Alice In Chains escono con Facelift, i Mother Love Bone erano già un ricordo sebbene avessero esordito appena un mese prima con il loro “Apple”. In comune con la band di Andy Wood gli Alice In Chains avevano la propensione per certo glam metal che andava per la maggiore a fine anni ’80, influenze che Layne Staley e Jerry Cantrell si portavano dietro dalle loro pregresse esperienze musicali e che avevano lasciato confluire anche nei primi passi della loro nuova incarnazione artistica. Ma se i Mother Love Bone erano imperniati sulla personalità dirompente ed istrionica di Wood, dando maggiore risalto all’aspetto più patinato del genere, gli Alice In Chains fondavano tutto sull’intreccio scurissimo tra la chitarra dannatamente heavy di Cantrell e la voce tremendamente sofferta di Staley. Sviluppi diversi della stessa equazione.

“Facelift” esce su Columbia e, dopo qualche iniziale tentennamento, esplode come un’atomica nel panorama alternative grazie al videoclip di Man In The Box, che spopola su quelle tv musicali che ai tempi potevano decretare davvero le sorti di un album e di una band. Il riff granitico di We Die Young inaugura il disco ed è il marchio di fabbrica che Cantrell appone sul debutto della band (e che da lì in poi si sarebbe portato dietro per sempre), mentre Staley sputa fuori rabbia e angosce, chiuso com’era in una scatola che, poco a poco, avrebbe riempito di veleno (“I’m the man in the box / Buried in my shit / Won’t you come and save me?”). L’attacco al fulmicotone di “Facelift” col passare dei minuti rallenta, si dilata, facendo emergere tutto lo straziante senso di malattia che attanaglia Staley, con I Can’t Remember e, soprattutto, Love, Hate, Love che prendono i Black Sabbath e li smembrano, li rimasticano e li fanno propri, immergendo l’album in una nebbia che accomuna Birmingham e quel Monte Rainier alle cui pendici prende vita l’album.

Gli Alice In Chains di “Facelift” sono acerbi ma hanno già piantato i semi di ciò che li renderà immortali, la potenza acida di Staley che s’incastra con le controvoci puntuali di Cantrell, i riff di quest’ultimo che corrono costantemente su un’inarrestabile linea ad alta velocità, la sezione ritmica di Mike Starr e Sean Kinney che pesta come ci si trovasse nel bel mezzo di una rissa, le melodie marcate anche quando sommerse. Caratteristiche che di lì a poco porteranno la band a un assoluto capolavoro come “Dirt” (1992) e che renderanno passaggi come Put You Down, I Know Somethin (Bout You) e Real Thing (tutti concentrati in coda all’album, quasi a voler riempire una tracklist altrimenti numericamente deficitaria) a essere davvero gli ultimi ganci degli Alice In Chains con i propri trascorsi eighties.

Distante da quelli che sarebbero passati alla storia come i capisaldi del grunge, distante anche dal modo in cui sarebbe proseguita la carriera/discografia degli stessi Alice In Chains, “Facelift” dev’essere considerato a tutti gli effetti uno di quei fondamentali dischi di passaggio senza i quali il rock venuto dopo non sarebbe stato lo stesso, un traghetto fantasma che ha spostato gli insegnamenti dei ’60/’70 e gli equilibri degli ’80 nei ’90, iniziando quel lavoro di modellatura che Staley, Cantrell e gli altri avrebbero poi ultimato nel corso del seminale lustro seguente.

DATA D’USCITA: 21 Agosto 1990
ETICHETTA: Columbia

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