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Rolling Stones: 50 anni di Exile On Main Street

Non era raro, nell’epoca d’oro delle grandi rock band, che nel momento in cui musicalmente si produceva il meglio della carriera – e, incidentalmente, della storia del rock – le vite personali dei componenti del gruppo fossero particolarmente complicate. È una situazione che ormai si verifica di rado, perché accadeva in primo luogo per gli enormi anticipi forniti dalle case discografiche, che davano alle band quantità enormi di danaro da spendere. Ma, abbiamo detto, era un anticipo: quindi le band erano obbligate non solo a pubblicare continuamente album (di buona fattura, perché dovevano incassare cifre tali da coprire quanto già anticipato), ma anche a fare massacranti tour mondiali. Un’agenda impegnativa, stressante, di responsabilità, che veniva spessissimo coadiuvata da enormi quantità di droghe ed alcool, che, chiaramente, contribuivano ad ingarbugliare ancora di più le vite dei partecipanti.

Insomma, avrete capito che nel 1972 le vite dei Rolling Stones, indiscutibilmente la più grande band al mondo a quel momento, erano un filo complicate. A peggiorare la situazione, i gravi problemi di tasse col governo inglese, che li costrinse ad andare in un dorato esilio in Costa Azzurra, tra principi (uno dei quali, Rupert Loewenstein, era il consigliere finanziario della band)  e miliardari come Aristotele Onassis.

Registrato in larga parte attraverso uno studio mobile parcheggiato fuori dalla villa di Keith Richards (il primo chiamato Rolling Stones Mobile Studio e usato per anni da band delle dimensioni di Led Zeppelin e Dire Straits, la seconda chiamata Nellcôte, villa di sedici stanze a Villafranca), il delirio prodotto in questa accozzaglia di tracce, in parte rimasugli di altre session, in larghissima parte registrate senza alcuni dei membri della band, non è immediatamente piaciuto alla critica contemporanea, che considerava Exile On Main Street inconsistente, altalenante. E, sia chiaro, lo è. Lo è nel senso che per gli standard di registrazione dell’epoca è rumoroso, chiassoso; lo è nel senso che dura quasi settanta minuti e, pur muovendosi nello scibile rock, cambia spesso genere, o mood, o stile.

Lo è perché è brutto, sporco e cattivo, ma viene fuori dal fango e dal dolore con momenti di estrema dolcezza, mai artefatti, che riscattano il cinismo a volte sin troppo esplicito (Keith Richards che ci racconta di come riesca a venire solo nei suoi sogni, perché l’eroina è una brutta bestia) ma che riflette la verità della loro esistenza, la paura ed il delirio, come dice la traduzione (sbagliata) di un romanzo del grande Hunter S. Thompson quasi contemporaneo.

E con Mick fresco sposino (con Bianca Jagger, unica moglie delle tantissime partner), è Keith a prendere realmente in mano le redini della situazione. Padrone di casa, direttore d’orchestra, sembra quasi assurdo pensando che, mentre Jagger, Wyman o Watts erano perfettamente sobri e in salute, fosse proprio Keith, strafatto ed in pessima compagnia (non solo di Mick Taylor, nuovo partner di chitarra, ma anche di Jimmy Miller, produttore e occasionalmente eccellente batterista, di Gram Parsons, The Grevious Angel, e di Bobby Keys, sassofonista e fratello da qui e per sempre) ad essere il motore instancabile di quelle sessioni. Infatti, con Mick a mezzo servizio (e sotterrato nel mix eccellente di Miller, Glyn e Andy Johns, che lo nasconde e lo esalta ad un tempo), il lato pop viene meno, e gli Stones fanno un disco assolutamente e totalmente rock. Country rock, gospel rock, rock’n’roll. Ironicamente, i due pezzi più pop sono Tumbling Dice e una Happy che vede insolitamente Keith a cantare, e che manca di mezza band, Mick incluso.

Oggi, cinquant’anni dopo, non c’è nessuno che mette in dubbio la grandezza di quest’album. È un album che, a dispetto della semplicità rock’n’roll che lo contraddistingue anche dalla stessa produzione stonesiana di quel periodo (gli altri tre capolavori, “Beggars Banquet”, “Let It Bleed” e “Sticky Fingers”, rispettivamente di quattro, tre e un anno prima, appaiono prima facieassai più elaborati), va ascoltato appassionatamente e digerito prima di apprezzarlo nella sua mastodontica profondità. Una profondità che passa da capolavori come Sweet Virginia o Shine A Light (dedicata, non tanto sottilmente, all’amico recentemente scomparso e fondatore degli Stones Brian Jones), ma che emerge anche nelle cover blues di Stop Breaking Down e Shake Your Hips nelle quali Jagger è velenoso come un cobra.

Emerge ad ondate in un album che, cinquant’anni dopo è rock moderno come non mai. Emerge come una barzelletta straordinaria che sul momento non hai capito, ma che ti ricordi dopo un po’ e ti fa scoppiare a ridere da solo come un cretino. Forse non solo l’apice degli Stones, ma l’apice del rock tutto, l’apice di un genere che continuerà ad avere anni di gloria e tutt’oggi, seppur sottotraccia, continua a vivere e pulsare, anche grazie alla vitalità che ancora oggi “Exile On Main Street” sprigiona ad ogni ascolto.

DATA D’USCITA: 12 Maggio 1972
ETICHETTA: Rolling Stones / Virgin / Atlantic

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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