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Protomartyr @ Monk, Roma (16/04/2016)

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Storie come quella dei Protomartyr sono la base corretta per creare qualcosa di buono. Quantomeno nella musica rock. Joe Casey è un trentenne annoiato, cresciuto a pane, post punk e nichilismo nella depressissima e fertilissima Detroit. Un giorno (meglio: una notte) incontra Greg Ahee (chitarra elettrica) e Alex Leonard (batteria), dieci primavere in meno di lui, e si unisce alla loro band: i Butt Babies. Con l’ingresso dell’altrettanto giovane Scott Davidson (basso) si formano definitivamente i Protomartyr, destinati con questi ritmi e tabella di marcia ad avere sempre più riflettori addosso. Giustamente.

Nella serata del Record Store Day, sono i romani Metro Crowd ad aprire le danze con grande spirito e savoir-faire. Abbigliata per metà da operai e per un quarto in divisa, la band dell’Urbe garantisce un solido opening a suon di cazzotti noise punk. Buonissima presenza on stage, repertorio conciso ma forte e coeso. Punti decisamene a favore.

Quand’è il turno del gruppo statunitense, la sala è piena e l’attesa ben ripagata. Casey, lattina di birra costantemente in mano e completo scuro, ha studiato dai migliori. E si vede; e si sente. Il quartetto comincia a battere cassa coi brani dell’ultimo “The Agent Intellect”, senza prendere fiato, senza fermarsi un secondo, da buona abitudine pp. Si sente puzza di Mark E. Smith lontani chilometri. E si gode, più che discretamente, con pezzoni scanzonati come Pontiac 87 o l’eccezionale trittico Scum, Rise! – What The Wall Said – The Devil In His Youth. C’è spazio per ogni episodio dell’ancor breve percorso dei quattro, persino il meno conosciuto esordio “No Passion All Technique”, con le brucianti e grezze How He Lived After He Died / Feral Cats. Dei Protomartyr sorprende, insieme all’evidente crescita discografica, il carisma messo in scena sul palco. Sono sicuri, preparati, concentrati da far spavento: l’atteggiamento è quello dei veterani – il corpo, di semi-esordienti. Con la conclusiva, mediamente decisa Why Does It Shake? si chiude il cerchio di un’ottima performance dal sapore agrodolce. Niente a che vedere con la qualità – per essere chiari. Agro: è l’odore di cenere e zolfo che mette addosso il post-punk. Dolce: la probabile proiezione di un gruppo già tosto, ma con in serbo ancora il meglio per loro e per tutti. Il diavolo, probabilmente; nella sua smagliante giovinezza.

SETLIST: Cowards Starve – I Forgive You – Boyce Or Boice – Blues Festival – Pontiac 87 – Trust Me Billy – Scum, Rise! – What The Wall Said – The Devil In His Youth – How He Lives After He Died – Feral Cats – Uncle Mother’s – Dope Cloud – The Hermit – Clandestine Time —encore— Why Does It Shake?

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