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Rolling Stones: 55 anni di Aftermath

Sicuramente ci sarà stato chi, nel 1965, considerava i Rolling Stones come una fortunata cover band di rhythm and blues americano con qualche rarissimo singolo originale. Vero, l’intensità e la qualità dei singoli firmati Jagger/Richards aveva subito una drastica impennata nell’ultimo anno, culminando in quella “(I Can’t Get No) Satisfaction” che ancora pochi immaginavano che potesse diventare uno dei più popolari e duraturi capisaldi della storia del rock, il riff definitivo, un simbolo della gioventù. Insomma, sono passati 57 anni, sapete di che parlo. Ma rimaneva l’impressione che le principali abilità delle cinque pietre rotolanti fossero quelle di provocatori ed intrattenitori.

Eppure Andrew Loog Oldham, il mefistofelico warholiano personaggio responsabile del management della band, aveva intuito sin da subito quali fossero le chiavi del successo duraturo: l’immagine e i pezzi originali; e per questo aveva spinto su Mick Jagger e Keith Richards affinché da subito scrivessero, e tanto – leggenda vuole che li abbia chiusi in una stanza impedendogli di uscire finché non avessero scritto un pezzo (che risultò essere “As Tears Go By”). E, del resto, i Beatles avevano incominciato, proprio nel ’65, a puntare sugli album più che sui singoli – una svolta culturale storica che aprì l’era dei grandi album, uno dei primi dei quali si può probabilmente dire che sia il capolavoro dei quattro di Liverpool “Rubber Soul”, composto interamente di originali.

Era il momento: un album composto interamente di originali firmati Jagger/Richards, un progetto ambizioso che rivestisse un’importanza storica musicalmente e culturalmente. Quell’album era, l’avrete intuito, Aftermath: il primo vero capolavoro della band, che consolidò l’immagine di ribelli e gli scrollò di dosso quella di imberbi imitatori del grande rhythm and blues americano. Gli Stones, conformemente alle esigenze del mercato dell’epoca, non si erano fermati un momento dal loro primo singolo nel 1963: tre album nel Regno Unito, cinque negli Stati Uniti, tour costanti e tonnellate di singoli. Ma con “Aftermath”, finalmente, si presero il loro tempo per fare il colpo grosso; non è quindi un caso la varietà e la ricchezza dell’album, che passa con nonchalance da Paint It Black alla leziosità barocca di Lady Jane, passando per jam psichedeliche (I’m Going Home) e bombe pop (Think).

Questa varietà ha certamente origine nel talento autoriale emergente di Mick e Keith, e nella assoluta duttilità della band e dei musicisti ad essa vicini (le preziose tastiere di Jack Nitzsche e del sesto Stones Ian Stewart), ma non può essere sottovalutato il contributo di quello che era il Rolling Stones originale, quello dal cui sogno nacque la band: Brian Jones, lo avevano crudamente detto i fatti, non era un autore di talento; lo aveva capito Oldham e lo sapeva anche lui. Non solo: Richards sempre più spesso era costretto a suonare tutte le parti di chitarra, perché Jones era spesso incapacitato dall’abuso di droga. Sembra una barzelletta, Keith Richards è il guidatore sobrio. Ma lo è solo per chi non ha capito Keith, che nella vita ha preso più droghe di quante si possano immaginare, ma che non ha mai messo in secondo piano il lavoro, l’amore per la musica, la dedizione al successo e soprattutto al comporre e suonare musica che lo portasse sul tetto del mondo.

A Jones rimasero solo l’innegabile stile, e una vorace curiosità per strumenti insoliti e stravaganti: qui il suo talento era non solo utile, ma elevava persino le già ottime canzoni. Pensiamo al sitar in Paint It Black o al dulcimer degli Appalachi che, insieme al clavicembalo, rende Lady Jane un capolavoro o, infine, alle marimba che costituiscono il fantastico riff di Under My Thumb. Questo era Brian Jones, un volubile, stravagante, fragile personaggio pieno di curiosità. Ma non lasciatevi ingannare: chi sostiene che fosse il vero talento degli Stones o è in malafede o vuole andare controcorrente a tutti i costi. È qui che i due giovani del Kent mostrano cosa diventeranno un giorno: due assoluti giganti, i più grandi e duraturi giganti della storia del rock. “Aftermath” è spesso stato accusato di essere un disco con diverse canzoni misogine, ma l’innegabile crudeltà di alcuni pezzi, dice Jagger, non è diretta “alle donne” ma “a una specifica donna”:

“La maggior parte di quelle canzoni sono davvero sciocche, sono piuttosto immature. Ma per quanto riguarda il cuore di quello che stai dicendo, direi… qualsiasi ragazza intelligente capirebbe che se fossi gay direi le stesse cose sui ragazzi. O se fossi una ragazza potrei dire le stesse cose sui ragazzi o su altre ragazze. Non credo che nessuno dei tratti menzionati sia peculiare delle ragazze. Si tratta solo di persone. Inganno, vanità… D’altra parte, a volte dico cose carine sulle ragazze” (da un’intervista per Rolling Stone, 1978)

D’altra parte, era la vita che conducevano ad attirare un certo tipo di donne (e di uomini, se parliamo di amicizie): un viaggio costante, un hotel dopo l’altro, una vita frenetica e fatta di rapporti superficiali e fugaci. Del resto Jagger e Richards sono ancora ventiduenni, con tutto ciò che quell’età comporta. Ma eccoci qui, cinquantacinque anni dopo, e li troviamo attivi come sempre e ne celebriamo le gesta. E “Aftermath” fu il primo grande passo verso quella grandezza che oggi tutti conosciamo.

DATA D’USCITA: 15 Aprile 1966
ETICHETTA: Decca

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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