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David Sylvian – Manafon

Addentrarsi in Manafon è come camminare scalzi sui rovi. Ci si punge facilmente, si lasciano piccole gocce di sangue sul terreno inumidito dalla pioggia, adesso lontana. Addentrarsi in “Manafon” rischia di tramutarsi in un viaggio attraverso una terra di nessuno. Dove non ci sono punti di riferimento, dove le nuvole diventano cemento che grava il cielo di un peso più grande di se stesso. Dai tratti surrealisti, impregnato di un’acre forma avanguardistica che informava già il precedente “Blemish” (ma senza toccare gli estremi di adesso), questo nuovo parto discografico del titano David Sylvian è materia difficile da penetrare. Luccica come una sfera di vetro, ma riflette le immagini che ha di fronte. E’ opaca ed il suo nucleo si dimena all’interno, rivelandosi lento, in piccole dosi. Capirlo equivale a risolvere un rompicapo, insomma. E di questo Sylvian, con la sua ricerca estetico-sonora, ne è consapevole. Dagli intenti marcatamente colti e selettivi a priori nella scelta del pubblico che avrà la risolutezza di ascoltarlo, la scrittura di queste nove tracce si sviluppa su ispide torsioni tonali da decifrare con calma. Il clima paludoso che aleggia ha striature sinistre per via di dissonanze che rischiano di farsi altamente escorianti. Sylvian canta, si distende coi suoi vibrati in sentieri vocali tutt’altro che semplici, e rifugge ognuna delle strutture della forma-canzone, volteggiando su composizioni che, rese davvero molto ostiche, sono prive di supporti ritmici. Si ha quindi spesso e volentieri la sensazione di star levitando su diversi livelli di destrutturazione sonora, dove gli arrangiamenti sono striscianti archi che stridono, note di pianoforte chi si aggregano a grappolo e poi sfuggono, come ne era capace John Cage (The Department Of Dead Letters). C’è molto della scuola nipponica di improvvisazione d’avanguardia (e non a caso collaborano al lavoro alcuni esponenti), un mondo sonoro da trattare con guanti e prodotti speciali. Non è allora incapacità dell’ascoltatore se si entra a gran fatica in Random Acts Of Senseless Violence, in cui le note sono cristalli che si gonfiano e prendono quota e si sfibrano in tante piccole bolle acide. Non è inettitudine del ricevente sentirsi straniato al termine del jazz malato di The Rabbit Skinner, dove gli incubi si frammentano e si accendono e spengono di fronte ad uno specchio (e a cui prende parte anche Fennesz). Non è stupidità o mancanza di pazienza fronteggiare i dieci minuti della lugubre litania The Greatest Living Englishmansenza provare l’urticante pulsione di skippare avanti, perché in certi punti pare di sottoporsi ad una tortura. Non è beata incompetenza mal sopportare la discesa di neve astratta di Snow White In Appalachia o tentare di guardare con occhio vivo i fumi industriali che sgorgano dalle bocche di Emily Dickinson o volersi immergere senza bagnarsi nel mare digitale della title-track. E’ necessario procedere per immagini, seppur contorte e complicate, per provare a comprendere “Manafon”. Sylvian si spinge verso la frontiera della dissoluzione e di un rigore estetico estremo, coniato dove la parte solida della realtà si è disaggregata e adesso fluttua come polvere in più direzioni. Il nuovo mondo artistico di David Sylvian è questo, chi ne ha paura se ne chiami fuori immediatamente.

(2009, Samadhisound)

01 Small Metal Gods
02 The Rabbit Skinner
03 Random Acts Of Senseless Violence
04 The Greatest Living Englishman
05 125 Spheres
06 Snow White In Appalachia
07 Emily Dickinson
08 The Department Of Dead Letters
09 Manafon

A cura di Marco Giarratana