Home EXTRA ANNIVERSARI Black Sabbath: 50 anni del self titled

Black Sabbath: 50 anni del self titled

“Strano che la gente paghi per farsi spaventare”, disse Geezer Butler a Ozzy Osbourne uscendo dal cinema, situato di fronte alla sala prove. Gli Earth, così si chiamavano, erano un’altra band inglese a suonare rock fortemente ispirato dal blues, ma con un suono più pesante di molte altre band. Erano andati a vedere “I tre volti della paura” di Mario Bava (in inglese “Black Sabbath”), un film dell’orrore italiano del 1963, e non solo trovarono un nuovo nome per la loro band (e per uno dei primi singoli, e per il primo album), ma trovarono un concetto, un’idea, che presto si trasformò in un genere musicale: l’heavy metal. Infatti, se musicalmente esistevano già allora band con un suono simile (Deep Purple, Led Zeppelin, Blue Cheer, Iron Butterfly per citare solo le più famose), il concetto dietro la nascita del metal deriva dall’idea di Butler e Ozzy, che lo misero in pratica creando un pezzo il cui riff principale utilizzava il tritono, un intervallo conosciuto come “diabolus in musica”sin dal diciottesimo secolo.

Quattro personaggi estremamente stravaganti, provenienti dalla plumbea, piovosa, grigia città industriale di Birmingham: Tony Iommi, chitarrista e leader della band, figlio di immigrati palermitani, si era segato parte delle dita nella fabbrica dove lavorava (come era accaduto a un altro leggendario chitarrista, l’immenso Django Reinhardt) e, per questo motivo, era stato costretto ad accordare la chitarra qualche tono più bassa in modo che la tensione delle corde fosse minore e gli fosse possibile suonare agevolmente nonostante il suo handicap; Geezer Butler, autore di molti dei testi della band, figlio di (poverissimi, come tutti e quattro i Black Sabbath) cattolici praticanti ma appassionato degli scritti di Aleister Crowley; Bill Ward, personaggio gioviale e gentile, spesso vittima degli scherzi dei compagni, batterista che suona con uno stile completamente stravagante a volte simile a quello di un percussionista; infine John Michael “Ozzy” Osbourne, un simpatico delinquentello da strapazzo, arrestato a quindici anni perché non ne poteva più di lavorare in fabbrica e decise di rubare un televisore (che gli cadde sui piedi durante la fuga).

Ognuno di questi quattro cazzoni diventerà, nel proprio ruolo, una leggenda e, nonostante le vicende – un po’ da romanzo, un po’ da cliché rock, un po’ da reality show – che in seguito ne determineranno vari scioglimenti e reunion, ognuno migliore insieme ai tre folli compagni di viaggio: la voce peculiare e quasi spettrale di Ozzy, il cavernoso basso di Geezer, gli inesauribili riff di Tony, le rocambolesche incursioni percussionistiche di Bill – mai questi elementi hanno reso nelle pur rispettabilissime (e a volte eccellenti) occasioni in cui sono stati separati come quando si sono ritrovati insieme.

Black Sabbath fu registrato in dodici ore, il 16 Ottobre 1969, quasi interamente dal vivo, dodici ore che cambieranno per sempre il corso della musica rock: per la prima volta le influenze blues che permeavano la musica dei grandi gruppi rock loro contemporanei vengono infatti superate per dare vita a qualcosa di differente. Meno raffinato e meno perfetto dei cinque capolavori che lo seguiranno nella discografia sabbathiana, “Black Sabbath” rimane tuttavia una pietra miliare della storia del rock, per la sua energia genuina e per un suono totalmente e radicalmente diverso da quanto sentito fino ad allora. “If you’re going to San Francisco / Be sure to wear some flowers in your hair”, cantava Scott McKenzie qualche anno prima durante la cosiddetta Summer Of Love, ma per tanti ragazzi che vivevano in città grigie, povere, dure solo una risposta veniva in mente: “Where the fuck is San Francisco?”, una risposta data da Ozzy Osbourne ma che risuonava probabilmente nella testa di molti giovani, all’alba dei durissimi anni ’70. Quei quattro ragazzi di Birmingham erano riusciti a dare una risposta al sogno hippie del quale erano rimaste le sole capigliature, dove i colori sono ormai ricoperti dal nero e dal grigio.

Che sia il diavolo che si innamora (N.I.B.) con un riff di basso sommerso di wah-wah (elemento estremamente inusuale per l’epoca) o una cover di Aynsley Dunbar (Warning) resa ancora più pesante della già pesante originale o, ancora, l’immancabile pezzo ispirato a “Il Signore degli Anelli” (The Wizard) che però era probabilmente ispirato allo spacciatore (allora d’erba) della band, i quattro ragazzi di Birmingham mettono le fondamenta per quella che sarà una delle band più influenti di sempre, al pari di Beatles, Rolling Stones e Led Zeppelin. Un debutto rivoluzionario (come di consueto stroncato dalla critica dell’epoca) che ha lasciato uno dei segni più indelebili che si siano mai visti nella storia del rock.

DATA D’USCITA: 13 Febbraio 1970
ETICHETTA: Vertigo

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.