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Giardini di Mirò: «Speriamo in un vento di cambiamento»

corradonucciniintervista2012Sono in viaggio con i Giardini di Mirò da dieci anni. All’alba del nuovo millennio ero fissato con il post rock, amavo alla follia quelle band che altruisticamente (o comodamente?) davano all’ascoltatore il compito di riempire di storie le colonne sonore umorali che proponevano. I Giardini pure. Perchè alzi la mano chi non ha avuto un groppo alla gola ascoltando grandi classici come “Rise And Fall Of Academic Drifting” (title track del loro esordio) o “Connect The Machine To The Lips Tower” (da “Punk… Not Diet!”). O chi non ha chiuso gli occhi durante un loro live popolando le suite strumentali dei Gardini del proprio personalissimo piccolo film. Il tempo poi passa, l’Italia cambia, peggiora per certi versi, gli animi si scaldano, le opinioni divergono. “Dividing Opinions” è un disco fortemente emozionale per Jukka Reverberi, Corrado Nuccini e gli altri: rock agrodolce, cantato (quasi) sempre presente e un’esigenza evidente di dire la propria. Il viaggio dei Giardini, fa uno strano balzo all’indietro, poi. “Il Fuoco” del 2009 è la sonorizzazione di un film del 1915 di Giovanni Pastrone. Dopo molte parole i Giardini tornano alla musica strumentale e, sul palco, si defilano perché in mezzo ci sono loro: una coppia di amanti alle prese con la fiamma della passione. Tutto in bianco e nero. E veniamo a oggi, veniamo a “Good Luck”. il viaggio dei Giardini di Mirò e il nostro tocca uno dei momenti storici più complessi, forse il più controverso in Italia da quando esiste la band emiliana. Il disco è scuro di gradazione e di umore, oltre a contenere tra le migliori canzoni mai scritte dal gruppo: gocciolanti di languori, personali, sofferte. In poche parole… tutto ciò che stavolta avremmo voluto dire noi e che abbiamo affidato a loro, ai Giardini di Mirò, altruisticamente (e comodamente).

Nuccini, partiamo da una prima curiosità: gli ultimi cinque anni dei Giardini prima di “Good Luck”, oltre alla sonorizzazione de “Il Fuoco”… da cos’altro sono stati riempiti? Voglio dire, quali sono stati gli ascolti, le esperienze, le cose raccolte, che sono finite su “Good Luck”?
In cinque anni accadono tantissime cose tanto che spesso le trasformazioni sono più rapide della loro tracciabilità. Quindi è difficile rispondere. Le esperienze che finiscono in un disco non sono solo quelle artistico-letterarie-musicali. In un disco finiscono dettagli, sfumature, inconscio, piccole e grandi ossessioni o per citare un poeta mio conterraneo di tanti anni fa “le lacrime ed i sospiri degli amanti, l’inutile tempo che si perd e giocando, ed il lungo ozio di uomini ignoranti, i vani propositi che non hanno mai attuazione”.

Al primo ascolto questo è un disco che ha una presa immediata: empatico, emozionale. Nella mia recensione questo feeling l’ho definito “colore”. Un colore riconoscibile. Che ne pensi? 
Bene, mi piace tua analisi e mi fa piacere che reputi “Good Luck” un disco con una presa immediata. Sul colore non c’ho mai pensato, non ne ho uno di riferimento. Qual è il tuo?

Forse blu notte.

A proposito di questo, “Good Luck” è un disco fatalista? La situazione in giro è irrecuperabile?
La situazione è grave, irrecuperabile no. Il nostro Paese dà il meglio quando è sotto stress. Il nostro “buona fortuna” vuole accompagnare un vento di cambiamento che per forze di cose dovrà soffiare altrimenti sì, saremo spacciati.

Mi ha sorpreso molto “Rome”. Mi racconti la storia di questa canzone “dedicata” alla Capitale?
Il testo è stato scritto tempo fa, negli anni di Berlusconi e di quel senso di impotenza che mi affliggeva quando quotidianamente ci si trovava a dover trangugiare quel mondo trimalcionesco in cui eravamo precipitati. E’ quindi influenzato da un senso di paralisi che si riflette nei due amanti della canzone che passeggiano per una capitale senza trovare compimento.

Le voci. Vedo un salto di qualità immenso delle vostre voci. In “Dividing Opinions” sembravano ancora molto contratte, ora invece risultano molto calde ed ispirate. Come avete lavorato in questo senso?
Hanno inventato dei plug in migliori per Pro Tools, tutto qui.

E poi ci sono le voci femminili: perché la scelta è caduta su Sara Lov e Angela Baraldi?
Ho conosciuto Angela ad un concerto tributo a Jim Carroll organizzato da Emidio Clementi, dall’epoca è un punto fisso della mia esperienza musicale. Ha cantato in “Bufera” (pezzo registrato dai Giardini di Mirò per la compilation “Materiali Resistenti”), ha cantato in altri progetti in cui ero coinvolto e anche in questo disco. Sara Lov è amica di Burro (Francesco Donadello) personalmente ho ascoltato molto il suo ultimo disco ed è stato un piacere sentirle cantare “There Is A Place”.

Musicalmente c’è uno spettro sonoro abbastanza ricco (ad esempio la sorprendente tromba finale in “Good Luck”). State cercando con gli anni di rendere sempre più denso il suono?
Stiamo cercando di avere un suono che sia quello di un gruppo adulto, non in preda alle mode musicali ma forte del proprio suono che esce dall’anima, dalle mani e dai pensieri di sei persone.

Qualche settimana fa vi rivedevo in un video del 2002 su Mtv in cui suonavate “Pet Life Saver” con Matteo Agostinelli di Yuppie Flu alla voce. Quanto siete cambiati da allora e sei contento di questi dieci anni di GDM?
Come si può vedere dal video siamo cambiati tantissimo. Certo che sono contento di questi dieci anni, il gruppo è rimasto pressoché quello, la forza, il desiderio e la spinta a suonare anche. Forse, forti della consapevolezza che l’età porta, anche aumentata.

Il post rock è morto nel frattempo?
Non lo so, non leggo gli annunci mortuali.

Ultima domanda: ma alla fine, qual è la taglia giusta per vivere in questa società?
Una taglia più larga di quella che ora calza a pennello perché l’idea è quella di crescere alla svelta.