Home RECENSIONI AC/DC – Power Up

AC/DC – Power Up

Gli ultimi anni non sono stati particolarmente gentili con quello che è senz’altro il più grande gruppo rock australiano di sempre. In primo luogo con uno dei due autori principali, quel Malcom Young che tanti riff memorabili ha donato alla storia del rock e che era già stato impossibilitato a registrare il precedente “Rock Or Bust”, quattro anni fa: Malcom è morto nel 2017 per conseguenze legate a una forma di demenza che lo affliggeva dal 2014. Poi Phil Rudd, batterista, e Brian Johnson, cantante sin dalla morte prematura di Bon Scott nel 1980: il primo arrestato per minaccia di omicidio e possesso di metanfetamina e cannabis, il secondo alle prese con gravi problemi all’udito che lo hanno portato, nel 2016, a lasciare la band (o a essere licenziato?), sostituito, al fine di completare il tour, dal redivivo Axl Rose. Infine Cliff Williams, bassista, che ha deciso di averne le palle piene della situazione e dei troppi cambiamenti e ha abbandonato la band alla fine di quel tour.

È rimasto Angus. Angus, duro come la pietra, stoico come Zenone, pragmatico come un crucco, con il suo completino da scolaretto, la sua Gibson SG, immutabile nel suo eterno assolo di pentatonica e nella sua duck walkrubata al maestro Chuck Berry. A chi osa sottolineare che possa forse essere vagamente ridicolo, alla veneranda età di sessantacinque anni, continuare a fare ciò che fa da cinquant’anni o quasi non dà nemmeno retta. È brusio di sottofondo. Ed è grazie a questo suo granitico stoicismo che è riuscito a rimettere insieme i pezzi: Johnson recuperato grazie a un non meglio precisato apparecchio acustico, Rudd che ha finito gli arresti domiciliari, Williams convinto a tornare e l’ormai fedelissimo Stevie Young (nipote quasi coetaneo di Angus) a continuare nel ruolo dello zio Mal, come del resto fa da anni.    

Saltano subito all’occhio i crediti compositivi: “All tracks composed by Angus and Malcom Young”. Infatti al pragmatico Angus è toccato il compito di mettere mano agli archivi e cercare idee lasciate in magazzino (buona parte delle quali sono esubero di “Black Ice” del 2008). Ripulite e sistemate, ecco l’album che serviva. Ma a chi diavolo serviva? “Ai loro conti in banca”, potrebbe dire qualcuno poco furbo, ma fattualmente non è così: Young e soci non solo godono di conti in banca ampi e abbondanti, ma oltretutto sarebbe assai più facile rimpinguarli – nell’ipotesi fantascientifica che al posto della carta igienica usino schizzi originali di Van Gogh e Picasso – facendo un semplice tour, pandemia permettendo, posta la ormai marginale rilevanza degli album negli introiti degli artisti.

“Alla musica?”, potrebbe azzardare uno speranzoso irriducibile fan del rock’n’roll, da anni moribondo. In questo caso sarebbe un semplice ascolto dell’album medesimo a smentirlo: Power Up è monoliticamente uguale agli ultimi quarant’anni di AC/DC, che da “For Those About To Rock” del 1981 in poi ripetono un copione estremamente preciso, con rare varianti, minime oscillazioni qualitative e noia crescente a ogni passaggio successivo: monolitico mid-tempo, testi irrilevanti incentrati su fregna e/o festa e/o motori, assolo di Angus e chiusura ad alto volume. “L’unica cosa a cambiare con noi è la copertina”, dice una famosa citazione apocrifa del chitarrista, e mai ciò è stato tanto vero come nel nuovo millennio: provate a inserire il singolo Shot In The Dark nella tracklist di uno qualunque degli album degli ultimi vent’anni e non sentirete differenze di produzione, composizione, ritmo, argomento. Maledizione, persino i coretti sono identici. E anche quando emerge qualcosa di interessante (il riff di Kick You When You’re Down o il break di Demon Fire, con un assolo di Angus finalmente un minimo interessante, per quanto breve) la monotonia imperante ne stempera l’efficacia.

Perché, allora? Senza voler fare quelli con la sfera di cristallo, azzardiamo due motivi: il primo, l’incrollabile orgoglio di Angus Young, fiero di portare avanti la bandiera del rock’n’roll qualunque siano le critiche ricevute, qualunque sia la difficoltà da superare in quel momento, a maggior ragione se questa bandiera viene oggi innalzata in tributo all’inseparabile fratello, fondatore e ideatore degli AC/DC. Il secondo, una legione di fedelissimi fan ai quali non importa se “Power Up” è uguale a “Rock Or Bust” che era uguale a “Black Ice” che era uguale a “Stiff Upper Lip” e che, stoica come il proprio idolo, non smetterà mai di seguirli.

(2020, Columbia / Sony)

01 Realize
02 Rejection
03 Shot In The Dark
04 Through The Mists Of Time
05 Kick You When You’re Down
06 Witch’s Spell
07 Demon Fire
08 Wild Reputation
09 No Man’s Land
10 Systems Down
11 Money Shot
12 Code Red

IN BREVE: 2/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.