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Baroness – Gold & Grey

È sempre un’impresa titanica entrare nel mondo dei Baroness. O meglio, è titanica se consideriamo quello che è diventato l’ascolto musicale negli anni ’10: rapido, usa e getta, playlist precotte da Spotify, brano inedito inascoltabile su Soundcloud, brano live su YouTube, e abbiamo chiuso. Soprattutto nel mondo della musica un po’ più mainstream (perché nel mondo della musica sperimentale il discorso cambia molto), non sono molti a presentare opere impegnative come i Baroness.

Perché, sia chiaro, dopo “Purple” (2015) e la nomination ai Grammy con relativa performance per “Shock Me”, possiamo tranquillamente considerare la band americana nel mainstream del metal, e con buona ragione: ambiziosi, apprezzati dal pubblico e dalla critica e capaci come pochi di scrivere musica heavy che sia assolutamente orecchiabile senza concedere nulla a chi pensa che per passare in radio il talento non conti.  Perché qui il talento conta, eccome: nonostante le defezioni seguite al terribile incidente del 2012 (la sezione ritmica composta da Matt Maggioni e Allen Blickle, sostituiti da Nick Jost e Sebastian Thomson) e quella più recente del chitarrista solista Peter Adams, sostituito dalla talentuosa Gina Gleason, già turnista per il Cirque du Soleil, Ian Anderson, Smashing Pumpkins e Santana, i Baroness presentano un livello tecnico estremamente alto, che tuttavia usano al servizio dell’album e mai per far vedere quante note consecutive riescano a mettere in un assolo di due minuti.

Gold & Grey conclude il ciclo dei colori, iniziato con “The Red Album” ben dodici anni fa, e lo fa con un album che chiude un ciclo, ben oltre quello che Baizley ha definito uno scherzo, ampliando le ambizioni già intraviste con “Yellow & Green” (2012) e introducendo influenze che vanno al di là del metal, come Cure o Smashing Pumpkins, anche se ciò non si direbbe dalla feroce introduzione che avviene con Front Toward Enemy.

Baizley, ormai l’unico membro originale della band, approfitta di questa sensazione di chiusura e allo stesso tempo di novità per lanciarsi in pezzi quasi psichedelici come I’d Do Anything, atmosferico ed arricchito da armonie e chitarre acustiche o Emmett – Radiating Light, cupa e atmosferica, e, incredibilmente, questi finiscono per essere i pezzi migliori dell’album. Non mancano excursus nel prog metal (Throw Me An Anchor) né durissimi pezzi dediti a esaltare una sezione ritmica strepitosa (Seasons), seppur essi siano macchiati da un’eccessiva compressione che in alcuni tratti rende i brani delle mere poltiglie sonore, penalizzando le straordinarie qualità tecniche della band.

“Gold & Grey” è forse troppo lungo, e si poteva fare a meno degli interludi che poco o niente aggiungono alla sostanza dell’album, la conclusiva Pale Sun sembra messa lì giusto per riempire la quota stoner, ma nel complesso è un ottimo album che amplia ancora gli orizzonti dei Baroness, continuando l’opera iniziata con “Yellow & Green” e proseguita con l’ottimo “Purple”, ma dando la virata definitiva verso nuovi suoni e verso un nuovo capitolo della band di Savannah, capitolo che non vediamo l’ora di ascoltare.

(2019, Abraxan Hymns)

01 Front Toward Enemy
02 I’m Already Gone
03 Seasons
04 Sevens
05 Tourniquet
06 Anchor’s Lament
07 Throw Me An Anchor
08 I’d Do Anything
09 Blankets Of Ash
10 Emmett – Radiating Light
11 Cold-Blooded Angels
12 Crooked Mile
13 Broken Halo
14 Can Oscura
15 Borderlines
16 Assault On East Falls
17 Pale Sun

IN BREVE: 4/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.