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Black Angels – Death Song

Il gruppo di Austin è tornato a quattro anni dal precedente “Indigo Meadow” (nel mezzo l’EP “Clear lake Forest”) con un nuovo lavoro dal titolo Death Song, ancora una volta ispirati, almeno in parte, dai Velvet Underground (nel caso specifico dalla loro “The Black Angel’s Death Song”).

Durante questi quattro anni appena trascorsi, i Black Angels hanno dichiarato di essersi dedicati, oltre che alla composizione di musica propria, anche alla realizzazione di musiche per film, all’organizzazione di festival e al faccia a faccia con eventi di vita particolari. Circostanze che avrebbero quindi contribuito a migliorare la chimica e la comunicazione tra i cinque. Ed effettivamente, nel dispiegarsi delle tracce non si può non notare come i membri della band costruiscano le loro creazioni con giudizio e lungimiranza.

“Death Song” è un album che mantiene senz’altro lo stampo stilistico e il sound cui il gruppo ha abituato, con i loro riverberi, feedback e delay, ma con la differenza che le tracce sembrano essere più fruibili, leggermente scremate dalle dilatazioni psichedeliche dei precedenti lavori. La carica e l’energia non mancano e si fanno sentire già dal primo pezzo, Currency, in cui una ritmica roteante apre le porte alle solite e beneamate atmosfere desertiche da Sud degli Stati Uniti.

I toni si raffreddano un po’ di più con i due pezzi successivi, specialmente con la malinconica Half Believing che sfiora quasi le caratteristiche di una ballata, per poi risorgere rinvigoriti e coraggiosi con Comanche Moon, dove ritornano le esplosioni chitarristiche e i delay dei cori ci catapultano in una prateria americana in mezzo a un esercito di comanche che combattono per la propria terra: l’incedere i diventa quasi epico.

Proseguiamo con Haunt Me Down coi suoi riff à la Black Keys e con Grab As Much (As You Can) che con i suoi jangle orientaleggianti sembra essere uscita direttamente dagli anni Sessanta (e sappiamo bene quanto piacciono gli anni ’60 al quintetto); allo stesso modo Estimate, che però al contrario della traccia precedente presenta piccoli inserti più tipicamente shoegaze e si fa notare per l’intreccio riuscitissimo tra la ritmica incalzante e la linea vocale.

Si ha ancora la prova di come i Black Angels abbiano voluto introdurre nuove sonorità, vedi Medicine in cui sembrano quasi allestire un dancefloor in mezzo al deserto con il suo ritmo disco. E poi la chiusura: Death March è un annuncio della fine, con Alex Maas che sembra parlare dall’estremità di un’altra dimensione; e poi Life Song, altra traccia lenta e malinconica che nella strofa ricorda un pezzo di Leonard Cohen col suo urlo quasi disperato del refrain. È un album che spicca per la sua gioiosità che poi si trasforma in malinconia e infine in speranza, un po’ coma la vita che s’intreccia con la morte, e da questa sgorga la speranza di un proseguimento in un aldilà.

Le tracce presentano meno rarefazioni lisergiche, quindi ci si perde poco nelle dilatazioni strumentali fini a se stesse che caratterizzano il genere, mantenendo un corretto equilibrio tra quest’ultime e la carica sporca e più prettamente rockeggiante che dà un buon groove a quasi tutto il lavoro. I Black Angels propongono ancora una volta una formula vincente per gli appassionati della psichedelia e poi… sia benedetta la voce androgina di Alex Maas che incornicia tutto in modo sublime.

(2017, Partisan)

01 Currency
02 I’d Kill For Her
03 Half Believing
04 Comanche Moon
05 Hunt Me Down
06 Grab As Much (As You Can)
07 Estimate
08 I Dreamt
09 Medicine
10 Death March
11 Life Song

IN BREVE: 3,5/5

Studentessa di Psicologia, trova il suo habitat naturale in mezzo alle note musicali, alle note cromatiche e ai boschi. Possiede un organo particolare che le consente di entrare in contatto autentico con il mondo solo attraverso il canale dell'arte.