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Brittany Howard – Jaime

La cantante degli Alabama Shakes non è nuova ad excursus personali: prima con la band rock Thunderbitch e poi con i Bermuda Triangle (nel quale è presente anche sua moglie Jesse Lafser), dediti a delicate acustiche ballate, con cui aveva fatto capire che lo straordinario successo degli Shakes (nove nomination e quattro vittorie agli Emmy nella loro sinora breve carriera) non era necessariamente la sua unica ragione di vita.

Tuttavia nessuno, altri membri della band inclusi, si aspettava che la frontwoman, cantante e chitarrista chiedesse tempo e spazio indefinitamente. Ma, ascoltando Jaime, è palese come quello della Howard non fosse un capriccio, una bizza da diva, insomma una cacata di una che si è montata la testa per il successo. “Jaime” è il nome della sorella di Brittany, morta a tredici anni per un retinoblastoma, una di quelle cose terribili che si sentono generalmente in una puntata di Dr. House; Jaime era (e, sentendola parlare, è ancora) il modello di riferimento per l’artista dell’Alabama, ma, a dispetto di quanto potrebbe far pensare il titolo, non è di lei che parla l’album.

L’album parla di Brittany Howard. Assurdo, eh? La vita di una ragazza povera, omosessuale e figlia di una coppia multirazziale (in Alabama, non proprio la patria della tolleranza, neanche nel ventunesimo secolo) non è certamente stata priva di ostacoli, e in “Jamie” viene descritta in maniera estremamente candida e personale. Già, personale: è per questo che la Howard non poteva portare le canzoni alla band (che comunque definisce i suoi “bro-bros for life), doveva essere in totale controllo di quello che, in trentacinque minuti, è una sorta di diario segreto psichedelico: sessualità, religione, famiglia rivelate nella maniera più sincera possibile.

A volte prevedibilmente simile ai dischi della sua band, “Jaime” offre uno spaccato musicale molto ampio e a volte sperimentale, come in 13th Century Metal, nella quale troviamo ospite Robert Glasper a suonare uno strano synth mentre Brittany recita una sorta di peana al mondo, nel quale ripete più volte “We are all brothers and sisters”.

Certamente gli episodi migliori sono quelli più soul e rhythm and blues (inteso nel senso classico del termine, non nel senso di R. Kelly), come Georgia, che racconta la cotta per una ragazza più grande (“I just want Georgia to notice me”) o He Loves Me, che parla del rapporto, quasi personale più che religioso, con Dio, con un assoluto show-stopper in Short And Sweet, un piccolo gioiellino voce e chitarra nel quale lo spirito malinconico di Nina Simone entra nella voce della Howard e la guida verso vette molto alte.

Nonostante diversi episodi validissimi (forse tra i migliori della carriera della cantante americana), “Jaime” risulta tuttavia estremamente frammentario e a volte ha difficoltà a lasciare il segno, mentre in altre (la già citata 13th Century Metal) l’ambizione sperimentale non è totalmente confortata dai risultati. Non c’è niente di sgradevole o mal scritto e certamente raggiungerà lo scopo dichiarato, cioè trasformare la tristezza del ricordo della morte della sorella in ricordi positivi, esorcizzandoli. Ma ci perdonerà questa meravigliosa artista se speriamo che torni presto alla band che le ha dato il successo.

(2019, ATO)

01 History Repeats
02 He Loves Me
03 Georgia
04 Stay High
05 Tomorrow
06 Short And Sweet
07 13th Century Metal
08 Baby
09 Goat Head
10 Presence
11 Run To Me

IN BREVE: 3/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.