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Cesare Basile – Saracena

La polvere s’alza e ricopre, è un manto, è un presagio. Così come il vento bollente. Quando s’alza lo scirocco significa che c’è da abbassare le persiane per ottenere il buio. In Sicilia è così, al Sud è così. La luce accecante racconta qualcosa. Saracena di Cesare Basile è un disco accecante. Che si muove tra mulinelli di vento ardente e nell’incedere dell’annuncio di un disastro. Il disastro dell’attacco in Palestina, il sangue a macchiare la terra gialla e la polvere a ricoprirla. Si chiama “nakba”. E di “catastrofi” ne è piena anche la storia della Sicilia, a partire dalla sottomissione e poi cacciata dei saraceni da parte dei Normanni. Perché non c’è cesura tra il sangue di ieri e quello di oggi, neanche il tempo.

Il ponte lo crea Basile con otto pezzi che arrivano dal vortice del Mediterraneo, solcati da strumenti musicali costruiti artigianalmente, corde pizzicate con unghia sporche di polvere. “Saracena” è un album di atmosfere cupe e accecanti, come detto. Dove trovano posto il presente e il passato, l’oriente e l’occidente. “Una lunga canzone scritta e registrata di getto nell’arco di due settimane – racconta Cesare – masticando le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish, quelle degli arabi di Sicilia condannati alla nostalgia come Abd al-Jabbar Ibn Hamdis, i versi di Santo Calì, le strofe popolari dell’abbandono di un’isola saracena negli intervalli delle melodie dei suoi Cantaturi”.

Il volo a uccello nel disastro di C’è na casa rutta a Notu, i copertoni che sobbalzano su strade incerte tra l’Africa e il mondo nella strumentale Kafr Qasim, le ruote di legno sul selciato di qualche trazzera in Bbacilicò, lo spoken word implacabile di Prisenti Assenti, le dissonanze di Caliti Ciatu, la malinconia inconsolabile di Cappeddu a mari (Sulu non pozzu scurdari / l’occhiu ca ti vitti iri”). La poetica di Basile compie la definitiva tintura con un modo di cantare che s’immerge per tornar su. Dove la lingua siciliana è solo una parte dell’insieme. Dove la Sicilia è un terreno polveroso su cui scrivere con un dito. Senza essere né l’inizio, né la/il fine.

2024 | Viceversa

IN BREVE: 3,5/5