Home RECENSIONI Childish Gambino – 3.15.20

Childish Gambino – 3.15.20

Quanti Donald Glover abbiamo conosciuto? Lo sceneggiatore poco più che ventenne di “30 Rock”, l’attore comico televisivo in “Community”, lo stand-up comedian, il giovane emulo di Drake delle prime mixtape, il Childish Gambino della sua affermazione musicale, lo showrunner, autore e occasionalmente regista di “Atlanta”, la star di Hollywood nel remake de “Il Re Leone” e di “Solo: A Star Wars Story”, il suo poco conosciuto alias di mcDJ, col quale ha remixato “Illinois” di Sufjan Stevens… sicuramente ne dimentichiamo qualcuno. E per ogni singolo Glover si è svelato un lato unico di questo enigmatico personaggio, che tutela la sua privacy come solo poche star della sua portata sono mai riuscite a fare prima, figurarsi oggi, nell’era dell’informazione totale. 

E come Donald Glover, anche Childish Gambino ha mostrato un eclettismo non comune; sì, perché come Glover, anche il suo alter ego Gambino (nome ottenuto attraverso un generatore automatico di nomi per il Wu-Tang Clan) non riesce a soffrire la stasi, come un grande squalo bianco deve continuare a rimanere in movimento per respirare. Continuare a sorprendere, continuare a stupire, continuare a dire qualcosa di diverso. E se lo strepitoso neo soul e funk di “Awaken, My Love!” (2016) era certamente diverso dall’hip hop moderno di “Because The Internet” (2013) e dal gigantesco boom fatto da “This Is America” (2018), singolo stand-alone che ha definitivamente consegnato Gambino/Glover alla pubblica coscienza, questo 3.15.20, uscito senza annunci e nella totale sorpresa, è certamente un capitolo ancora una volta nuovo e differente per il poliedrico artista di Stone Mountain, Georgia.

Sperimentale e commerciale, profondo e svagato, psichedelico e durissimo, l’album presenta un’enorme varietà stilistica in quasi un’ora, senza mai sembrare inopportuno, un’enorme prova di maturità artistica: Glover cattura in maniera perfetta lo zeitgeist, senza mai cadere nella retorica pur trattando a volte argomenti ad altissimo rischio di pippone retorico: Algorhytm, ad esempio, parla dell’isolamento tecnologico causato da social network e dalla costante reperibilità; la retorica a volte la sfiora concretamente, ma la polverizza utilizzando un’interpolazione di un ritornello classico r’n’b (“Everybody move your body, now do it / Here is something, that’s gonna make you move and groove“  da “Hey Mr. DJ” delle Zhané) e un campionamento da “Closer” dei Nine Inch Nails.

Ancora, nella già edita “Feels Like Summer” (qui presentata col titolo di 42.26 che, come quasi tutti gli altri pezzi dell’album, si riferisce al minuto nel quale il pezzo compare) parla di potenziali catastrofi: riscaldamento globale, il rischio che le api possano estinguersi, sovrappopolazione, e lo fa con un pezzo estremamente radiofonico, caldo, nel quale sfoggia un falsetto degno di Marvin Gaye. Ed è proprio Marvin Gaye che viene in mente nell’eclettismo di Gambino e nella sua penna a tratti tagliente, che parla con la stessa efficacia della violenza dilagante nella società di oggi (47.48) e di un trip con la propria donna e dei funghetti di psilocibina (12.38) e ironicamente di se stesso (“Ooh, my beard long, damn, I look like Jesus (Uh) / And my shirt is off, ooh, I feel like Fela (Uh) “, in 53.49). 

L’eclettismo non solo lirico, ma anche musicale, dicevamo: Glover, qui di nuovo con il collaboratore di lunga data Ludwig Göransson e insieme a DJ Dahi, Chukwudi Hodge, Kurtis McKenzie e James Francies, Jr., affronta ancora una volta soul, funk, hip hop, elettronica, r’n’b, psichedelia, senza mai cadere in un momento di banalità e sfoderando anche prestazioni vocali notevolissime, un aspetto spesso sottovalutato nella sua produzione musicale. Ed anche nella costruzione musicale del ritmo dell’album e dei temi, Glover fa un lavoro eccellente: la psichedelia di Time (nella quale compare Ariana Grande) e della citata 12.38 equilibrano l’elettronica iniziale e il groove che gli succede.

Così come la wonderiana, sensuale 47.48 viene messa in chiusura ma seguita da 53.49, che in perfetta maniera cinematica provvede a dare dei titoli di coda a un ideale racconto, con la migliore performance vocale dell’album (e forse, coraggiosamente, il suo miglior pezzo), anche nei temi: dopo aver dubitato delle sorti del pianeta e aver affrontato il tema dell’amore per se stessi – un tema a lui estremamente caro, come saprà chi ricorda la sua enigmatica e incredibilmente profonda lettera di addio a “Community”, pubblicata su Instagram per spiegare le motivazioni del suo addio allo show – chiude su una nota di estrema positività: “There is love in every moment / When you feel alone / Know you are not alone”.

Ora c’è un solo problema per Donald Glover aka Childish Gambino: se “Awaken, My Love!” e “Atlanta” rimangono, nonostante l’ottimo successo, prodotti più o meno con un seguito di culto o comunque prettamente americano, l’aver pubblicato un album che così chiaramente coglie lo spirito dei tempi e che lo fa con musica di livello ancora una volta esagerato (e l’averlo fatto dopo un singolo di straordinario successo come “This Is America” e l’aver interpretato Simba nello stramaledetto Re Leone, con Beyoncé come partner e più di un miliardo e mezzo di incassi al box office), significa avere l’attenzione dei media addosso, gli occhi del pubblico puntati e la critica pronta a cogliere ogni minimo passo falso, anche inventandolo, se necessario, come fece Pitchfork con la demenziale recensione del suo esordio (il discreto, seppur imperfetto, “Camp” del 2011), al quale assegnò un 1.6. Questa è forse la fine di un’era per Childish Gambino, moniker che Glover ha espresso l’intenzione di ritirare ben prima di “3.15.20”, e noi non vediamo l’ora di sapere cosa ci aspetta all’alba di una nuova era.

(2020, RCA)

01 0.00
02 Algorhythm
03 Time
04 12.38
05 19.10
06 24.19
07 32.22
08 35.31
09 39.28
10 42.26
11 47.48
12 53.49

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.