Home RECENSIONI David Bowie – Glastonbury 2000

David Bowie – Glastonbury 2000

I discografici sono una brutta razza. Una razza che generalmente quando un artista passa a miglior vita (vita probabilmente migliore perché non hai discografici tra le balle) esulta come a un gol della nazionale ai mondiali: time for money, motherfuckers. Con questo non vogliamo necessariamente dire che le brave persone alla Parlophone Records siano personaggi di questa risma, ma certo da quando David Jones, in arte Bowie, aka Il Duca Bianco aka L’Uomo Che Cadde Sulla Terra, ha lasciato questa valle di lacrime, i suoi dischi escono a un ritmo forsennato; tra live, box set, EP e chi più ne ha più me ne dia, abbiamo perso il conto. Non che ci dispiaccia, sia chiaro, soprattutto perché continuano a sfornare meraviglie come questo live a Glastonbury 2000, quasi trent’anni dopo la sua precedente esibizione al festival, un giovane mezzo hippy davanti a 12 mila persone allora, un Dio sceso dall’Olimpo davanti a 250 mila persone adesso.

E la setlist, dopo i disastrosi Ottanta e gli eclettici Novanta, torna a essere una selezione di meraviglie da ogni fase della sua straordinaria carriera, che però stranamente bypassa il recente “Hours…” (1999) per includere un pezzo a testa dai ben più sperimentali “1. Outside” (1995) e “Earthling” (1997), rispettivamente la sottovalutatissima Hallo Spaceboye la piccola orgia drum’n’bassLittle Wonder.

E mentre la superstar performa divinamente (nonostante i postumi di una brutta laringite), difficilmente si riesce a fare a meno di pensare a come la gente di successo oggi, le rockstar, se di rockstar ancora si può parlare, non siano più divinità scese dal monte Olimpo, ma gente che potresti incontrare a studiare ai tavoli della tua facoltà o a fare la spesa nel supermercato di quartiere. “Bello”, si potrebbe dire, “la mitologia del rock ha rotto i coglioni”, si può insistere citando Thom Yorke nell’atto di dire al mondo che avrebbero fatto un disco quasi senza chitarre quando erano la guitar band più famosa al mondo (un atto che, per inciso, è da rockstar al 500%). Ma non è così.

Mancano gli eroi senza tempo come Bowie, fragili, capricciosi, geniali, coraggiosi, audaci, altalenanti. Di gente noiosa ce n’è una marea, ridateci gli idoli, si può, no, si deve pensare mentre si ascolta uno dei grandi eroi musicali dello scorso secolo e forse di sempre. Si deve ambire a qualcosa di migliore, ha rotto il cazzo questa narrativa del “è uno di noi”. Ma che cazzo, io non lo voglio uno di noi, io voglio qualcuno che sia meglio di me, che cazzo ci faccio con uno come me?

Bowie fu categorico: la BBC avrebbe potuto trasmettere solo qualche canzone. Perché, santo cazzo? È il suo ritorno al successo vero dopo anni in cui la critica lo bastonava perché troppo sperimentale, dovrebbe essere naturale volerlo alla BBC in tutta la sua gloria; e invece Bowie sapeva, sapeva che un giorno si poteva tirar fuori da un cassetto in tutta la sua inedita grandiosità, quindici, vent’anni dopo, mentre per vent’anni gli unici a serbare quel ricordo sarebbero stati i 250 mila presenti e non un’anima in più.

Calmo, rilassato, divertito, in vena di raccontare al pubblico storie e aneddoti, Bowie sfodera una delle più straordinarie performance della sua carriera (Emily Eavis, organizzatrice di Glasto e figlia del fondatore, Michael, la ritiene la miglior performance della storia del festival), si lancia in una commovente Life On Mars?, opportunamente abbassata di tonalità, in Golden Years, faticosissima per un convalescente dalla laringite, in una brutale Station To Statione poi ancora Absolute Beginners, Ashes To Ashes, Starman, Rebel Rebel, una sorta di greatest hits, che, incidentalmente, contiene una decina tra i pezzi rock più belli di sempre.

La band è altrettanto divina e tecnicamente devastante: l’ormai inseparabile Mike Garson alle tastiere, Sterling Campbell alle pelli, Earl Slick e Mark Plati alle chitarre e la strepitosa Gail Ann Dorsey al basso. È proprio con lei che arriva uno dei momenti più alti del set:Under Pressure, cantata in duetto con la Dorsey che non sfigura assolutamente nella parte del Dio Mercurio (ruolo che al tributo per Freddie era toccato ad Annie Lennox – diciamo non la prima che passa). E poi una perla tra le perle: inizia lenta, arrangiata diversamente, quasi in un flamenco che si protrae per più due minuti fino a “If you should fall into my arms / Trembling like a floooower”… Bam! Il riff creato dal genio di Nile Rodgers esplode, Let’s Dance, in tutta la sua gloria.

Un performer nato, al massimo della sua maturità; lo sappiamo, ogni anno escono centinaia di box, deluxe, super deluxe, concerti, ma l’industria discografica potrebbe averci sorpreso: finalmente qualcosa di assolutamente imprescindibile che avevamo messo nel dimenticatoio.

(2018, Parlophone)

CD 1
01 Introduction (Greensleeves)
02 Wild Is The Wind
03 China Girl
04 Changes
05 Stay
06 Life On Mars?
07 Absolute Beginners
08 Ashes To Ashes
09 Rebel Rebel
10 Little Wonder
11 Golden Years

CD 2
01 Fame
02 All The Young Dudes
03 The Man Who Sold The World
04 Station To Station
05 Starman
06 Hallo Spaceboy
07 Under Pressure
08 Ziggy Stardust
09 “Heroes”
10 Let’s Dance
11 I’m Afraid Of Americans

IN BREVE: 4,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.