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David Bowie – Station To Station

E’ il lento rumore delle rotaie di un treno a dare inizio alla passione nostalgica di Station To Station, un disco che nasce dall’idea di movimento, dalla spinta verso nuove frontiere immaginarie e dal desiderio di elevarsi ad una dimensione ultraterrena. Il periodo che Bowie stava attraversando, nel 1976, era pessimo; gli amici John Lennon ed Elton John, che si recavano spesso a visitarlo, erano convinti che sarebbe morto presto, perché la vita condotta a Los Angeles lo stava annientando e la cocaina, forse, di più: “Non è un effetto collaterale della cocaina, credo debba essere stato l’amore. E’ troppo tardi per rendere grazie. E’ troppo tardi per fare tardi ancora è troppo tardi per odiare”, afferma nel brano che dà titolo all’album, Station To Station. L’adolescente berlinese Christiane F., nella sua biografia, dichiara di aver provato una grande angoscia durante questo passaggio, mentre assisteva al concerto berlinese di Bowie nella Deutschehalle nel ‘76: “Quando arrivò al pezzo ‘It is too late’ non ce la feci più”. La sera stessa del concerto, la ragazza provò per la prima volta a sniffare l’eroina (“Christiane F., Wir Kinder Vom Bahnof Zoo”). Anni dopo, nel 1983, Bowie interpretò un cameo nel film omonimo tratto dal libro ed interpretò proprio i dieci intensi minuti di “Station To Station”, algido, elegante, distante, redento. L’amore che mancava, per poter guarire dalla dipendenza, era la grazia divina, implorata con angoscia: “Signore, mi inginocchio per offrirti il mio messaggio in volo su un’ala: sto provando disperatamente ad adeguarmi al tuo schema” (Word on a Wing), parole che esprimono quanta forza Bowie stesse cercando interiormente per liberarsi dall’assuefazione. L’artista, ridotto allo spettro di se stesso, desideroso di solitudine ed, al contempo, spaventato dalla solitudine, era alla ricerca di una spiritualità che non si esaurisse, ad ogni modo, nella cieca fiducia in una dottrina scodellata dalla retorica religiosa: pur chiamando dal baratro, Bowie conserva il suo fascino dignitoso e lucido, messo in rilievo da un profilo musicale molto creativo ed altamente sperimentale. L’ibrido stilistico che Bowie stesso battezzò “plastic soul” aveva già prodotto “Young Americans” nel ’74, ma solo con questo album Bowie si immedesima nel Thin White Duke, acconciato con panciotto e capelli striati, come se fosse appena uscito da una tela di Egon Schiele o da una pièce di Bertold Brecht: “Il ritorno del segaligno duca bianco, che scaglia frecce negli occhi degli amanti”. Raffinatissimo è, infatti, il soul di Golden Years, forse il brano meno cupo della sequenza, e quello di Stay, al quale sono mescolati anche pop e funk. Se “Golden Years” fornisce preziosi consigli colmi di voglia di rinascere (“Non voglio sentirti dire che la tua vita non ti sta portando da nessuna parte, angelo mio. Su, alzati, tesoro, e vieni a guardare il cielo”), invece “Stay” è la narrazione di un incontro che non va a buon fine: “Perché non puoi mai dire se qualcuno vuole le stesse cose che vuoi tu”. In questo brano particolare e in TVC15, confuso balbettio di versi su una fanta-televisione d’alta ingegneria da guardare esclusivamente se si soffre d’insonnia, avviene una prima fusione di rhythm’n’ blues con i suoni elettronici, tramite l’impiego di mellotron e moog, forse a causa della lenta digestione di quello che gli americani chiamavano, con termine dispregiativo, kraut-rock, ossia la musica proto-elettronica dei tedeschi Kraftwerk e dei Neu. Il titolo stesso dell’opera, “Station To Station”, non è altro che una citazione colta o, piuttosto, un ringraziamento all’omaggio che gli stessi Kraftwerk avevano fatto a Bowie, menzionandolo nel brano “Trans-Europe Express”: “Di stazione in stazione, tornando al centro di Düsseldorf, incontro Iggy Pop e David Bowie”. Dal suo esilio volontario a Los Angeles, Bowie sa che la terra della resurrezione in Europa sarà proprio la Germania, paese di malcelate decadenze e tecnologie avanguardiste: “Il cannone europeo è qui”, grida, invasato, in “Station To Station”. Chiude l’opera Wild Is The Wind, una cover densa di pathos di una famosa ballata di Dimitri Tiomkin. E’ probabile che sei brani possano sembrare pochi per un album, ma sono composizioni di durata considerevole e di intensità coinvolgente, in cui già si avvertono le anticipazioni di ciò che sarebbe stata la musica dell’immediato futuro e che Bowie avrebbe inserito nella seguente trilogia berlinese.

(1976, RCA)

01 Station To Station
02 Golden Years
03 Word On A Wing
04 TVC15
05 Stay
06 Wild Is The Wind

A cura di Paola Villani