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Elbow – Little Fictions

Dopo l’acuto (perlomeno commerciale) di “The Seldom Seen Kid”, al gruppo inglese capitanato da Guy Garvey è andato benissimo vivacchiare. Offrire un prodotto affidabile, apprezzato dalla critica e con un discreto seguito di pubblico. Un antidoto per chi dei Radiohead preferiva le canzoni pop ma è rimasto avvelenato dalla svolta del nuovo millennio (Gesù, sembra una vita fa, e del resto sono passati 17 anni).

Di fatto, gli Elbow (così come i Muse o i Coldplay o un’altra quarantina di band spacciate per “i nuovi Radiohead” a quei tempi o poco dopo – una su tutte, gli agghiaccianti JJ72) sono usciti fuori in quel fiorire di band che dai Radiohead, o meglio da diverse sfaccettature dei primi due album della band di Oxford, traevano spunto e, sin dall’esordio, hanno fatto poco per nasconderne l’influenza.

Perso il batterista, dedicatosi a famiglia e lezioni di batteria, e trovata moglie, Guy Garvey, con il suo timbro petergabrieliano e il suo amabile crooning indie, ritrova il sorriso e fa schiarire la musica della sua band come un cielo dopo la tempesta (tempesta che, per la precisione, sarebbe il divorzio che incupiva il precedente “The Take Off And Landing Of Everything”) grida, pardón, soavemente invoca “Fall in love with me / everyday” in Gentle Storm, sfodera un arrangiamento d’archi quasi sanremese per l’apripista Magnificent (She Says) e risulta quasi gentile persino quando si lancia in invettive anti-Brexit in K2.

Vivacchiare, dicevamo, coccolati dalla critica e con un seguito di pubblico di tutto rispetto. “The Seldom Seen Kid” è stato senz’altro il proverbiale “botto”: la caramellosa “One Day Like This” li ha resi conosciuti a tanti (senza peraltro rappresentare molto di ciò che li aveva portati sino a quel punto); ma, dopo quel “botto” niente è stato più interessante e ogni album successivo non ha aggiunto nulla alla saga di Garvey e soci. Little Fictions, con le sue percussioni elettroniche i suoi arrangiamenti a tratti sontuosi, a tratti assolutamente minimali, fa esattamente questo: aggiungere un capitolo alla saga degli Elbow, il capitolo della maturità, della compiutezza, del definitivo raggiungimento della propria identità, che prescinde dai Radiohead, prescinde dai “cugini ricchi” Coldplay, prescinde da quell’unico exploit commerciale (impietosa, a tal proposito, la conta delle visualizzazioni su YouTube per il video del barocco pezzo del 2008 paragonato alla somma del resto dei video caricati sul canale VEVO) e prescinde anche dalle promesse degli esordi.

Gli Elbow hanno trovato, alla fine, la propria identità, chiara, definita, di gruppo pop a volte un po’ mieloso ma in fondo amabile; un gruppo che agli inglesi piace pensare sia un’altra grande perla nascosta che gli Yankee non comprendono; un gruppo amabile, abbiamo ripetuto tante volte, ma è meglio dire difficilmente odiabile. Ed è proprio in quest’ultimo punto che si può scorgere il difetto di “Little Fictions” (che poi è il difetto della band, se non di Garvey), ovvero la mancanza di quell’elemento straordinario che rende la musica eccitante. Un elemento che non sapremmo descrivervi, chiamatela follia, chiamatelo genio, chiamatelo come vi pare – rimane che senza di esso, la musica di “Little Fictions” rimane onesto, apprezzabile, gradevole mestiere. E nulla più.

(2017, Polydor)

01 Magnificent (She Says)
02 Gentle Storm
03 Trust The Sun
04 All Disco
05 Head For Supplies
06 Firebrand & Angel
07 K2
08 Montparnasse
09 Little Fictions
10 Kindling

IN BREVE: 3/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.