Home RECENSIONI ITALIA Julie’s Haircut – Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin

Julie’s Haircut – Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin

Quante band italiane intitolerebbero un proprio album in tributo a “Invocation And Ritual Dance Of The Young Pumpkin” di Frank Zappa e al film “Invocation Of My Demon Brother” di Kenneth Anger? Poche, azzardiamo. Nel mainstream italiano, ci spingiamo a dire proprio nessuno; e questo vale sia per il mainstream che vende, come i vari Lorenzo, Ligabue, Amici, Xfactorini vari, sia per quello amato dalla critica, quello che, ogni anno, sforna nuovi eccezionali fenomeni che hanno fatto l’album del secolo, ma che dico del secolo, del millennio, ma che dico del millennio, di sempre e che dopo uno o due anni vai a ripescare l’album e vorresti solo che gli stream Spotify si potessero gettare dal finestrino come Giovanni fa con la cassettina dei Cugini di Campagna nell’ormai leggendario “Tre uomini e una gamba”. Quello, per capirsi, che ormai si chiama “indie”, fondamentalmente perché non vende un cazzo.

Ma i Julie’s Haircut non lo fanno per fare i fighi o per staccarsi dalla massa, questo è il modo in cui genuinamente vivono l’arte, la musica, con l’interesse per chi non è allineato. Questo Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin, seguito sia cronologico che ideale di “Ashram Equinox” del 2014, li vede applicare ancora una volta un metodo di composizione basato sull’improvvisazione e la successiva produzione e ricostruzione delle due jam session dalle quali è originato il materiale.

L’album è influenzato dal Miles anni ’70, quello della fusion con Zawinul, McLaughlin, Wayne Shorter (viene in mente con l’introduttiva Zukunft, oltre 11 minuti di jam, la “Right Of” su “A Tribute To Jack Johnson”, privata del funk e intossicata dai Can) e non solo nel metodo, ma anche nel suono. Tuttavia, è caratteristica dei Julie’s Haircut variare gli argomenti: e così lo space rock degli Acid Mothers Temple di Kawabata Makoto fa capolino in The Fire Sermon, vagamente orientaleggiante e ipnotica, e i Pink Floyd post-Barrett pre-Dark Side sembrano uscire fuori in Salting Traces.

Torna, per questo settimo album, la fondatrice Laura Storchi, e si aggiunge alla formazione la sassofonista Laura Agnusdei, che arricchisce con le sue improvvisazioni al sax l’ormai consolidato space rock arioso e rumoroso della band di Sassuolo.

I Julie’s Haircut sono partiti come un’interessante band di rock indipendente, ma possiamo ormai dire, visto anche il riscontro internazionale (inimmaginabile per una larghissima parte dei gruppi di casa nostra), che sono una delle realtà musicali più interessanti in Italia, sperando che possano continuare nella loro straordinaria scalata all’Olimpo del rock.

(2017, Rocket)

01 Zukunft
02 The Fire Sermon
03 Orpheus Rising
04 Deluge
05 Salting Traces
06 Cycles
07 Gathering Light
08 Koan

IN BREVE: 4/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.