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Justin Timberlake – Man Of The Woods

C’è tanta gente che aspetta Justin Timberlake sulla riva del fiume. Sì, perché la critica musicale moderna ha mutuato un’attività già propria del “pubblico” moderno, ma che era anche molto in voga ai tempi delle ondate di puritanesimo che spinsero madri religiose preoccupate a bruciare dischi e merchandising dei Beatles, o alla fine degli anni ‘70, quando lo stesso accadde con la disco music, non stavolta in un impeto puritano ma in un impeto di purezza della propria militanza musicale.

Quest’attività è quella di trattare la musica come fosse la NFL o la Serie A, l’NBA o la Premier League, ovverosia come un’attività nella quale la componente principale che rende il pubblico interessato è il tifo. Timberlake in termini di tifo ti mette in una situazione assai difficile, come giornalista musicale, come critico. Perché da un lato… questo qua era con gli N’SYNC, oh. Una boy band di quelle proprio senza speranza di recupero musicale. E poi era il fidanzatino “disneyano” (nel senso che lavoravano assieme al Mickey Mouse Club) di Britney Spears, motivo in più per disprezzare qualunque sua uscita.

Solo che, al momento del disco solista, Timberlake rinnega il vapido pop del suo passato giovanile e si butta invece in un pop sofisticato, prodotto straordinariamente, influenzato dal miglior Michael Jackson e, nonostante tutto, di successo. Pubblica relativamente poco (tre album, di cui uno doppio, tra il 2002 ed il 2013) ma sbaglia praticamente niente. Certo, può tranquillamente non piacere il pop iperprodotto dalla faccia pulita, ma è assai arduo contestarne i meriti senza passare per quel che oggi si chiama “hater”.

Il che ci porta a oggi, al quarto album del nostro: Man Of The Woods è stato presentato con Justin vestito da boscaiolo e con una performance al Super Bowl (criticata per alcuni problemi audio e per aver pensato più al pubblico a casa che al pubblico nello strapieno – ovviamente – U.S. Bank Stadium di Minneapolis) e prodotto con il consueto team composto da Timbaland, Danja e dai Neptunes. Ma già dal primo ascolto è facile constatare come “Man Of The Woods” sia assai più azzardato nella ricerca sonora, assai più ardito nella commistione di generi, assai più avaro di singoloni da multiplatino com’era accaduto fino a due anni fa con “Can’t Stop The Feeling”, che tra platini e diamanti è più ricca di una vetrina di Tiffany.

Finalmente, il passo falso! Le curve si preparino alla ola, i giornali indie preparino il fuoco e anche le fiamme se resta tempo: “Troppi generi assieme, troppo casino, ‘sto damerino non sa cosa sta facendo, ve lo avevamo fatto vagamente capire noi, anche se al momento lo sostenevamo perché di incredibile successo”.

Beh, che l’album sia meno immediato dei suoi predecessori è innegabile, ma l’azzardo, secondo noi, ha invece pagato: Timberlake con “Man Of The Woods” piega la gabbia dorata piena di accessori e Jacuzzi che si era costruito con la sua carriera solista e decide che meglio di una gabbia è una casa: la casa, in questa imbarazzante metafora, sarebbe il familiare pop funk che permea comunque l’ora e passa di quest’album.

Ma la differenza tra una gabbia e una casa è che da casa puoi uscire ed entrare come ti pare, visitare posti nuovi (come il folk elettronico di Flannel o le armonie quasi a cappella della title track, che si tinge anche di country con dei fill di chitarra slide), ma anche riportare a casa qualcosa di nuovo: in Filthy, caratterizzata da un groove di basso devastantemente sexy, scompare la tipica costruzione timberlakiana del singolone estremamente pop, quindi dei suoi canoni rigorosi, lasciando spazio a un’interpretazione più rilassata, piena di gridolini, armonie e unisoni lievemente imprecisi come nella miglior musica nera.

In Higher Higher – il miglior pezzo dell’album – Timberlake posa il funk da classifica in armadio e si lancia in un pop che cerca (con buon successo, peraltro) di richiamare il miglior Stevie Wonder, quello di “Innervisions”, ma senza scimmiottarlo, con estremo rispetto e con un’impronta personale degna di nota. Ancora, in Sauce il funk e il pop incontrano un riff puramente rock.

L’album è lungi dall’essere perfetto: sedici pezzi sono troppi, alcuni sono qualitativamente inferiori e potevano tranquillamente essere lasciati fuori (come ad esempio le due tracce conclusive o la banale Say Something con Chris Stapleton), mentre a volte le montagne russe sonore scombussolano lo stomaco. Ma, del resto, lo stesso “Justified” non era questo immacolato capolavoro degno di “Off The Wall” per il quale è stato spacciato.

Ancora una volta eccellente la produzione e l’attenzione ai suoni e, anche se le ambizioni quasi da non più giovane Jacko di Timberlake probabilmente non saranno mai realizzate, è confortante vedere come una star del suo livello economico non abbia paura di osare, di provare, anche in un momento della carriera in cui (teoricamente) potrebbe giocare una mano più semplice e continuare a incassare assegni. Con buona pace dei tifosi seduti sulla riva del fiume.

(2018, RCA)

01 Filthy
02 Midnight Summer Jam
03 Sauce
04 Man Of The Woods
05 Higher Higher
06 Wave
07 Supplies
08 Morning Light (feat. Alicia Keys)
09 Say Something (feat. Chris Stapleton)
10 Hers (Interlude)
11 Flannel
12 Montana
13 Breeze Off The Pond
14 Livin’ Off The Land
15 The Hard Stuff
16 Young Man

IN BREVE: 3,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.