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Lambchop – Showtunes

Kurt Wagner, l’uomo dietro al nome Lambchop, non è mai stato un grande amante di quelle che si definiscono “showtunes”. Quelle, per intenderci, cui Bob Dylan ha recentemente dedicato due tripli album; quelle, per capirci, parte del “Great American Songbook”, la grande canzone pop pre-rock’n’roll, sofisticata, magistralmente arrangiata, scritta da grandi autori come Cy Coleman, Cole Porter, i fratelli Gershwin, cantata da grandi interpreti come Sinatra. Wagner è sempre stato più un tipo da Curtis Mayfield che da “Oklahoma!”, e non è di certo uno che vedi girare in frac e fumare una sigaretta in penombra, appoggiato al piano. Anzi, cazzo, non lo sa proprio suonare il piano; ha sempre avuto appresso la sua chitarra, vestito con una camicia bianca e il suo inseparabile cappellino, con la quale ha prodotto alcuni dei più straordinari album di musica pop, rock, alternative country, quello che è.

E allora che diavolo sono queste Showtunes del titolo? Facciamo un passettino indietro al 2016, quando, con mossa sorprendente – disarmante, quasi, per quelli che ritengono che un artista, raggiunto un ragguardevole traguardo qualitativo con un qualche suo album dovrebbe produrre all’infinito lo stesso disco, mai dissimile da se stesso – si lanciò nell’avanguardista “FLOTUS”, sperimentando con elettronica, beat e suoni sintetici. Invero un oceano di distanza dal passato come stravagante orchestra alternative country, ancor di più quando visti dal vivo: una piccola folla di persone a suonare i ricchi arrangiamenti di Nixon, sul palco si trasforma in tre persone e un tot di sintetizzatori, tastiere, drum machine.

La forte identità della voce di Wagner ha fatto sì che questo processo di decostruzione del suono, proseguito con “This (Is What I Wanted To Tell You)” del 2019, rimanesse fortemente “Lambchop” durante i tre capitoli di un’ideale trilogia che vede in “Showtunes” il terzo capitolo. La decostruzione qui avviene quasi per caso, con Wagner che, giocando con un controller MIDI, trasforma gli arpeggi di chitarra in evocativi suoni di pianoforte, che successivamente modifica, aggiusta, trasforma. “Showtunes” le chiama e, come sempre accade con l’enigmatico e carismatico leader della band di Nashville, non si capisce bene quanto sia serio e quanto sia faceto.

Nessuno dei “consueti” membri dei Lambchop appare qui, complice la distanza dettata dalla pandemia, e quindi la politica a porte girevoli della band fa sì che Ryan Olson ed Andrew Broder (collaboratori anche di Justin Vernon aka Bon Iver) siano parte della band per questa occasione – che in realtà doveva essere una performance al festival Eaux Claires, fondato proprio da Justin Vernon con Aaron Dessner dei The National. L’esperimento di “Showtunes” funziona: arricchito dal contrabbasso di James McNew (Yo La Tengo) e dai fiati principalmente arrangiati da CJ Camerieri (Bon Iver, Paul Simon), Wagner non propone di certo Cole Porter, ma nemmeno Randy Newman o Tom Waits; tuttavia gli atmosferici arpeggi di piano digitalmente manipolati rendono un’idea impressionista del genere, come se Manet dipingesse ciò che nella sua testa vede dei dipinti di Caravaggio.

Quasi ambient a tratti, ma potentemente melodico in altri, l’album non ha sostanzialmente punti deboli, che sia Drop C, nella quale Wagner canta evocativamente “Like somebody’s mother you sang the blues”, la drammatica strumentale Papa Was A Rolling Stone Journalist o la conclusiva The Last Benedict, nella quale compare, intrecciandosi con Wagner che recita tra i migliori testi della sua già ragguardevole carriera (“And in my mind, I’m in a house along the beach / The interstate and trees sound just like waves / A voice beyond the leaves / Sings in a lazy kind of yodel”), la voce di una cantante lirica, l’album è ricco e piacevole, brillante e azzardato. E ciò che rende il lavoro di Wagner sorprendente è questa costante reinvenzione apportata con pochissimi elementi che, in qualche modo, danno l’illusione di essere molti di più della moltitudine di musicisti che arricchivano capolavori come “Nixon” (2000) o “Is A Woman” (2002).     

(2021, City Slang / Merge)

01 A Chef’s Kiss
02 Drop C
03 Papa Was A Rolling Stone Journalist
04 Fuku
05 Unknown Man
06 Blue Leo
07 Impossible Meatballs
08 The Last Benedict

IN BREVE: 4/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.