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Malajube – Labyrinthes

Disse il leggendario Steve Albini, in un’intervista col leggendario Mark Prindle, citando il leggendario John Peel (buonanima): “Quando mi propongono un disco che non mi piace, suppongo che sia un mio problema, e che la band non avrebbe pubblicato quel disco se non ci fosse stato qualcosa di valore nel disco stesso”. Allora, traendo spunto da questa massima di suprema umiltà (umiltà che fingerò mi si addica), tenterò di rintracciare i problemi che affiggono il mio giudizio in relazione a quest’album: 1) i Malajube vengono dal Quebec. Per ragioni che probabilmente riguardano il mio psicologo, e che coinvolgono un tag team della ormai trasformata World Wrestling Federation, ho scarsa sopportazione per i quebecers; 2) i Malajube hanno coraggiosamente deciso di usare la propria lingua madre, invece che piegarsi alle logiche di mercato e cantare in inglese come parte dei propri conterranei (Arcade Fire, Wolf Parade). Per ragioni che riguardano il mio psichiatra e che coinvolgono un letto, delle manette ed una ragazza francese con dei meravigliosi occhi verdi ed i capelli tinti di fucsia, io odio i francesi.; 3) i Malajube sono stati, senza alcuna loro colpa se non quella di aver pubblicato degli album, tra i cocchi di Pitchfork Media, sito di recensioni musicali rinomato soprattutto per la capacità di essere un trendsetter in ambito di musica indipendente. Per ragioni che riguardano il mio psicanalista e che coinvolgono un’innumerevole quantità di band insulse incensate senza alcuna ragione apparente che non riguardasse capi di vestiario, io odio Pitchfork Media. Fesserie a parte, colpisce rispetto all’album precedente (e rispetto all’esordio), il cui pezzo forte era senz’altro “Montréal -40°C”, la mancanza di energia, la mancanza di quel quid pluris che rendeva interessante la musica dei Malajube. Sembra quasi una versione senza forze del gruppo precedente. Sembrano quasi inseguire le sonorità degli Air (per restare in tema di mangiaformaggio), senza avere però quell’eterea classe del duo francese, né l’impatto melodico degli album precedenti. Ebbene sì, dannazione: Pitchfork aveva ragione ad incensare “Trompe-l’Oeil”, perchè era un disco interessante, ascoltabile e godibile; qui invece ci troviamo nell’ambito del trito e del ritrito. Non lasciatevi ingannare dalla lingua francese come ostacolo supremo: noi italiani abbiamo il vantaggio dell’ignoranza, quindi l’idioma risulterà incomprensibile tanto quanto l’inglese alla maggior parte degli ascoltatori del Bel Paese, e le liriche sulla perdurante influenza della religione cattolica sul popolo del Quebec rimarranno alla gran parte di voi oscuri farfugliamenti esattamente come le liriche di Roger Waters sulla vita e la morte. La differenza fondamentale (e mi rendo conto che il paragone è eccessivo, ma estremizzo per rendere i miei farfugliamenti più comprensibili a chi legge) è che qui la musica non ti parla come faceva nel caso di Waters, Gilmour e soci; resta priva, come dicevo, di quel quid pluris che rendeva “Trompe-l’Oeil” un disco affascinante e godibile.

(2009, City Slang / Dare To Care)

01 Ursuline
02 Porte Disparu
03 Luna
04 Casablanca
05 333
06 Les Collemboles
07 Heresie
08 Dragon De Glace
09 Le Tout-Puissant
10 Cristobald

A cura di Nicola Corsaro