Home RECENSIONI ITALIA Måneskin – RUSH!

Måneskin – RUSH!

Ricordo abbastanza distintamente il momento in cui la band romana (oggi giovane, allora giovanissima) apparve come una furia sul palcoscenico dello spettacolare circo di X Factor: scelsero un pezzo inedito, bruttarello ed autoreferenziale, portato a casa con un’esibizione tesa e nevrotica quanto magnetica e coinvolgente. Ah, scusate, sto parlando di musica in riferimento ai Måneskin, evenienza inconsueta e straniante. Beh, portate pazienza, in qualche modo riuscirò anche a metterci dentro capezzoli coperti col nastro adesivo, bisessualità e completini sadomaso, promesso. Dicevamo: la prima esibizione. In quell’occasione, così come nel prosieguo del talent, avevano mostrato una incredibile capacità di tenere il palco e buone capacità da performer, ma soprattutto una innaturale capacità di suscitare antipatia, quando non vero e proprio – immotivato? – odio, in chiunque non fosse immediatamente diventato un loro fan. Alla Sony non avranno forse fra i talent scout il Colonnello Parker, che vendeva merchandising sia pro che contro il suo protetto, un certo Presley; è sicuro tuttavia che siano bravi a fiutare il successo. E l’innaturale capacità costerà alla band romana il titolo in favore dell’anonimo Licitra, innocuo Bublé in salsa italica, ma non il supporto della casa madre, che in loro investirà – si vocifera – milioni di dollari, certi di un successo del quale siamo effettivamente oggi tutti testimoni. 

In questo successo, fatto di Sanremo, Eurovision, capezzoli e scandali all’acqua di rose (veramente c’è qualcuno così fesso da aver pensato che Damiano David avesse pippato coca in diretta all’Eurovision?), la musica sembra avere un ruolo assolutamente marginale, se non per qualche proclama di voler salvare il rock o stronzate simili. Eppure i Måneskin sfornano singoli a ritmo continuo, come fossero negli anni ’50, e le loro canzoni sono praticamente onnipresenti in spot, TikTok, Instagram, radio e baracchini per camionisti. Dal loro debutto internazionale RUSH!, ad esempio, sono stati estratti cinque singoli, dei quali il primo (l’obbrobriosa Mammamia) edito nel 2021, freschi ancora della vittoriosa apparizione all’Eurovision.

Ascoltando l’album scevri da preconcetti e pregiudizi – pratica che sembra dannatamente fuori moda e superflua – la domanda che viene immediatamente alla mente è “perché?”, accompagnata mano nella mano da tutta una serie di specificazioni: “Perché tanto hype?”, “perché tanto odio?”, “perché chiamarli rock?”, “perché quasi un’ora di musica?”; a queste domande cercherò di rispondere con tranquillità ché, cari lettori difensori della sacralità del rock’n’roll, la risposta a queste domande non pagherà il mutuo o la bolletta del gas né al vostro amato autore di questa recensione, né a voi. 

Scritto interamente dalla band e, a differenza del precedente “Teatro d’Ira – Vol. 1” (2021), affiancata da un team di autori professionisti estremamente rinomati nel pop internazionale, l’album è un calderone di banalità su storie d’amore cialtrone, pericoli della fama e di Los Angeles, e di ritorsioni contro critiche e recensioni negative (“You said I’m ugly and my band sucks / But I just got a billion streaming song / So kiss my bu-bu-bu-bu-bu-bu-butt”, canta Damiano in Bla Bla Bla). Insomma, liricamente una versione ammorbidita della carriera dei Guns N’ Roses fino a “Use Your Illusion” e musicalmente, anche qui supportati da un team di produttori che farebbe impallidire Rihanna, non è che si vada molto meglio, dato che il sound sterilizzato à la Imagine Dragons che pervade tutto l’album si affianca a presunte citazioni che pescano un po’ qua e un po’ là da tutto ciò che è facilmente imitabile per struttura e idea di base: i Nirvana, i Sex Pistols, gli Sleaford Mods, persino una grattugiata di Television, come fosse parmigiano sulla pasta con le vongole. Ma il fatto che sia facilmente imitabile non significa che il risultato sia artisticamente significativo. E poi, figli cari, è chiaro che lo straordinario, immenso successo ottenuto cambi la vita, ma gli fotte una sega a nessuno se con questo successo ci siano dei fastidi e qualche ipocrita sulla dorata strada dai mattoni gialli. 

E così potrebbe sembrare che ci stiamo allineando all’italica tradizione di cacare in testa a qualunque connazionale che abbia l’ardire di avere successo internazionale, come accaduto ad esempio a Sorrentino o a “Gomorra”. “Vaffanculo, è tutta invidia!” è il commento tipico della fazione opposta, anche osservando che la stampa musicale d’oltremanica e oltreoceano è stata sufficientemente benevola – ma loro hanno il problema opposto, ovvero una sostanziale indulgenza per i successi stranieri, timorosi di cannare una recensione per mancanza di comprensione di qualsivoglia moda o trend. Ma non è nostra intenzione cacare in testa a questi ragazzi. Partiamo da alcune osservazioni di merito: paragonandoli ad un’altra band che viene presentata come salvatrice del rock (i Greta Van Fleet) il suono è più smaccatamente pop, ma parimenti è molto più personale, così come le varie “citazioni” sono integrate in maniera sensata e non macchiettistica (beh, diciamo quasi sempre), facendo sì che non sembri di trovarsi davanti a una cover band di infimo livello. E poi c’è roba come The Loneliest, una grande ballata pop rock, estremamente radiofonica e che rimane in testa ma non nella maniera irritante di Mammamia. Certo, il riferimento qui non è sicuramente “Baby I’m Gonna Leave You” ma piuttosto Harry Styles con “Sign Of The Times”, in linea con l’ambizione (della band? Dell’etichetta? Forse di entrambe) di riempire gli stadi con ragazzine e ragazzini, non con carampane e boomerozzi con le magliette dei Led Zeppelin. 

Questo minestrone un po’ di tutto racchiude anche situazioni incomprensibili come Kool Kids, in cui Damiano David blatera un tot di roba a caso in un finto accento londinese, o la già citata Bla Bla Bla, in cui riferimenti e banalità superano il già alto livello di guardia, ma alla fin fine rimane abbastanza incomprensibile il feroce odio per questa band. Ragazzini giovani dalla musica non abbastanza brutta per essere odiabile, ragazzini che si divertono a fare studiate provocazioni all’acqua di rose (il “matrimonio” usato per promuovere l’uscita di “RUSH!”, ad esempio) e che dicono cose non particolarmente intelligenti o originali, ma neanche particolarmente offensive o stupide. Che sia a causa del cancro social per cui ognuno deve costantemente esternare la propria opinione non richiesta su qualunque cazzo di scoreggia il culo del mondo abbia partorito stamattina? Che sia noia, disagio, fastidio per la gioventù? A guardare una classifica a caso, c’è un fiume di merda in piena che fa roba peggiore dei Måneskin, eppure raramente alcuno di quegli “artisti” catalizza la metà dell’odio di Damiano, Victoria, Thomas e Ethan, che già a chiamarli per nome ci si sente vecchi. “RUSH!” è un dischetto mediocre, di pezzi mediocri: ce n’è una tonnellata di peggiori e altrettanti migliori e, tra quelli peggiori, ce n’è mezza tonnellata che da anni viene esaltata come e più della band italiana. Chi li difende sottolinea come siano meglio quattro ragazzi che suonano la chitarra che non uno stronzo coi tatuaggi in faccia che recita puttanate con una base pre-registrata sulla quale non ha nemmeno lavorato lui. Un esempio migliore, dicono. Può essere, anche se anche qui c’è una marea di esempi di gente che fa roba migliore, anche coi tatuaggi in faccia e la base pre-registrata, ché mica vendo Fender io, a me interessa ascoltare roba buona, e di quella ne gira comunque tanta anche oggi.

E allora qual è la verità? Quale la soluzione? Permettetemi, per rispondere, una similitudine: se qualcuno di età che si aggira sui quaranta si fosse avventurato a vedere “Mercoledì” di Tim Burton su Netflix e ne abbia seguito le vicende social, potrebbe in qualche modo aver notato l’affinità della polemica su questo show con quella del successo dei Måneskin, e la cosa non è una coincidenza. Mi è capitato di vederne qualche puntata, non apprezzarne i tropi, la scrittura, la recitazione, staccare e passare ad altro. Il motivo, che poi è la chiave di lettura di tutta la situazione, è che questi prodotti (perché tali sono, checché chiunque ne voglia opinare) hanno un target. E quel target, caro amico, non sei tu. Ergo sì, la musica dei Måneskin è mediocruzza, e sì, sono bravi sul palco. Ma non sono meritevoli di queste enormi, interminabili discussioni. Sono un prodotto per un target, e per quel target funzionano. Quindi se non sei il target, semplicemente passa oltre. Resta, a questo punto, una sola domanda alla quale non sappiamo dare risposta: che minchia ci fa Tom Morello in Gossip?

— 2023 | Sony —

IN BREVE: 2,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.