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Muse – Simulation Theory

Matthew Bellamy e i suoi sono tutto tranne che stupidi. Hanno capito da anni che il loro prendersi sul serio, il loro voler essere i Queen della nuova generazione (due desideri solo apparentemente in contraddizione) sono ormai demodé. Il momento è passato, lo slancio è finito, la critica è cauta nello stroncarli ma certamente non li esalta più almeno da “The 2nd Law” (2012) in poi, il pubblico… beh, il pubblico, in questi tempi di sovraesposizione, premia sempre coloro che mantengono una forte identità. E i Muse l’identità, forte e diversa da quasi tutti, ce l’hanno sempre avuta da quando hanno capito che di imitatori dei Radiohead ce n’erano già una tonnellata. Dimentichiamo per un momento che roba come “Black Holes And Revelations” (2006) era l’opera di gente che credeva con estrema convinzione in quello che faceva e in come lo faceva, e facciamo finta di bercela, questa storia che “hey, è tutto uno scherzone, ridete con noi”, che è – più o meno – il modo nel quale Simulation Theory è stato messo sul mercato: grafica realizzata dal responsabile grafico di “Stranger Things” (nostalgia + sci-fi) e “The Last Jedi” (nostalgia + sci-fi), video musicali stracolmi di riferimenti a film di fantascienza degli anni ’80 (nostalgia + sci-fi) e persino il titolo è un riferimento alla teoria già esposta in “Matrix”, noto, notissimo, stranoto film di fine anni ’90 (nostalgia + sci-fi). Tutto ciò presentato con un sottinteso: “Non facciamo mica sul serio ragazzi eh, mica si può prendere sul serio ‘sta roba qui, dai, siamo dei burloni divertenti, avete visto Stranger Things? Eheheheh”.

Poi arriva la musica, e lo sforzo enorme fatto per dimenticare ciò che abbiamo, per mera gentilezza, voluto mettere di lato, rimane vano. Rigoglioso di synth anni ’80 che vanno di gran moda e della solita pompa magna, “Simulation Theory” si prende grandemente sul serio e quando fa sorridere, lo fa involontariamente (la demenziale intro di Propaganda, per esempio).

Ogni tanto emerge un tentativo di ricordare i fasti passati (Pressure), compositivamente banale e ricco di (iddio ci perdoni per aver citato Asia Argento) “falsetti ingiustificati”, ma poi si torna ai sintetizzatori, che come scelta alla moda nel 2018 suona tanto come il disco “grunge” dei Kiss nel 1997 (o come l’album con influenze dubstep fatto dai Muse nel 2012).

La schiera di fan dei Muse è sempre ampia, tuttavia dubitiamo che si amplierà ancora. I fan più onesti potranno trovare sollievo in qualche garbata e piacevole versione acustica presente nella superdeluxe edition, e in una Dig Down educatamente gospel. Quelli meno onesti, invece, diranno che i Muse ce l’hanno fatta ancora con la loro straordinaria, eccellente, superlativa musica, ma in cuor loro spereranno segretamente che il prossimo non sia un disco trap.

(2018, Warner)

01 Algorithm
02 The Dark Side
03 Pressure
04 Propaganda
05 Break It To Me
06 Something Human
07 Thought Contagion
08 Get Up And Fight
09 Blockades
10 Dig Down
11 The Void

IN BREVE: 1,5/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.