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Nine Inch Nails – Hesitation Marks

hesitationmarksHesitation Marks è destinato a spaccare ulteriormente il fedele stuolo di adepti dei Nine Inch Nails. I musi lunghi fioccavano già a ridosso del debolissimo “The Slip” (ancor prima con “Year Zero”, ma a torto), i bronci si sono moltiplicati con la retromarcia ideologica e l’ingresso nel catalogo di una major (stavolta la Columbia, casa anche degli How To Destroy Angels) dopo le battaglie contro lo strapotere della corporatocrazia musicale. Reznor, come di consueto, va dritto per la sua strada e giunge sulla soglia dei 25 anni di carriera con una prova che segna l’ennesima mutazione stilistica, come sempre indissolubilmente legata alle sue vicende personali.

Chi (chi?) si attendeva una raccolta di canzoni dall’impatto capace di radere al suolo un grattacielo, sappia che rimarrà a bocca asciutta. Le esperienze maturate con gli How To Destroy Angels e le soundtrack in collaborazione con Atticus Ross (qui presente in veste di co-produttore) hanno condotto i NIN a un approccio è più cerebrale e minimale. L’ultrastratificazione di “The Fragile” è un ricordo distante secoli.

Governate da drum machine e synth, le architetture sono ora più snelle ma non per questo meno complesse. Le chitarre scandagliano il fondale dei brani opacizzate dai filtri ed emergono solo in sporadici casi. Si intercettano tracce di LCD Soundsystem e dubstep soprattutto nell’impianto ritmico, nonché una propensione verso la dance minimal e l’hip-hop (passione di cui Reznor non ha mai fatto mistero). Insomma, chi non è avvezzo a certe sonorità non avrà vita facile qui dentro.

Dall’umore globale scuro e torbido, “Hesitation Marks” vive di pochi bassi, ma non trabocca di alti. Il meglio si attesta sopra una dignitosa media che non è in grado di insidiare i classici spartiti del repertorio reznoriano.

Copy Of A striscia minacciosa sul sentiero che unisce dark wave e kraut rock. Came Back Haunted è una hit da dancefloor delle tenebre attraversata da dissonanze spettrali e sorretta da un basso che si agita su una melma elastica, ed è parente stretta di “The Hand That Feeds”.

Il clima notturno di Find My Way unisce le rarefazioni degli How To Destroy Angels con le recenti esperienze cinematografiche in una ballata di spoglia bellezza. Il discorso si complica però con All Time Low, un elettro-funky meccanico dagli intarsi kingcrimsoniani (c’è Adrian Belew alla chitarra): quelle quattro-note-di-numero nel ritornello rivoltano l’atmosfera del brano come un calzino. E chi – forse con malizia – pensasse che dietro vi sia l’ombra di “Closer”, non avrebbe tutti i torti.

Spiragli di luce si intravedono in I Would For You, il cui refrain sboccia in un giardino di reverse, rischiarando così il bruno incipit dubstep. Scintille di rabbia zampillano dalle saldature di In Two, avvolta da una nebbia tetra e aliena che richiama certi episodi di “Year Zero”. Seppure questi siano i momenti migliori della tracklist, sono invero normale amministrazione per il prodigio di Mercer.

Ci si addentra nella zona grigia con il coefficiente pop di Various Methods Of Escape che si perde in un ritornello sì orecchiabile ma poco incisivo, uno scarto di “With Teeth”. Reznor gioca coi linguaggi stilistici e tira fuori Satellite, qualcosa di mai sentito nel repertorio dei NIN, un sensuale e sinistro r’n’b che pare ammiccare da lontano a Justin Timberlake (sic). Ma “Hesitation Marks” ha in grembo anche passaggi a vuoto. I tentativi di manipolare il minimalismo tipicamente Warp (e parecchio prossimo al Thom Yorke solista) e di inglobarlo nella tela NIN non riescono granché bene. Running si dimena ma non sfonda, troppo chiusa nel suo autismo stilistico. Stessa cosa, se non peggiore, accade in Disappointed, piatta e con un Reznor in penuria di idee vocali.

Ma la pietra dello scandalo è Everything, ovvero i Cure totalmente in chiave maggiore, un inimmaginabile assalto di spensieratezza che non si integra con il resto. Ok, adesso la vita di Reznor è stabile e ha nuove prospettive, ma un simile slancio appare esagerato, se non fuori luogo.

Giunti al capolinea, l’impressione che si ricava è quella di un album troppo sbilanciato sull’esplorazione e l’assimilazione di nuovi linguaggi sonori a discapito dell’appeal melodico, da sempre la vera arma in più di Reznor. Nonostante certi episodi siano formidabili in sede live (“Copy Of A”, “Came Back Haunted”, “Find My Way”), si nota una crepa qualitativa profonda con il resto del repertorio. I tempi tormentati di “The Downward Spiral” e “The Fragile” sono sepolti, e con essi anche quello dei capolavori.

(2013, Null / Columbia)

01 The Eater Of Dreams
02 Copy Of A
03 Came Back Haunted
04 Find My Way
05 All Time Low
06 Disappointed
07 Everything
08 Satellite
09 Various Methods Of Escape
10 Running
11 I Would For You
12 In Two
13 Where I’m Still Here
14 Black Noise